Appare ormai probabile che, anche questa volta, la riforma della cittadinanza (“una cosa giusta in un momento sbagliato”, secondo il leader di Alternativa popolare, Angelino Alfano) verrà affossata da tatticismi politici. Ma se pure questo progetto decadesse, la questione si ripresenterà, con urgenza sociale ancora maggiore, nella prossima legislatura. E’ dunque essenziale proseguire e approfondire la discussione, concentrandosi non tanto sulle ragioni tattiche, ma su quelle strategiche e di principio, pro o contro la riforma. Per questo, i legittimi e radicali dubbi di Ernesto Galli della Loggia (“Lo ius soli e i dubbi legittimi”, Corriere della Sera, 24 settembre ) meritano una riflessione.
Il provvedimento approvato alla Camera e poi bloccato in Senato sarebbe pericolosamente generoso, perché fondato su una prospettiva “astrattamente individualista, indipendente da ogni realtà culturale”. In particolare, la proposta di riforma, aprirebbe le porte della cittadinanza a centinaia di migliaia di giovani, prescindendo del tutto “dal contesto culturale familiare e di gruppo in cui il futuro cittadino è cresciuto, e tanto più da qualunque accertamento circa l’influenza che tale contesto può avere avuto su di lui, sui suoi valori personali, sociali e politici”. Senza un filtro culturale e morale, la legge renderebbe italiani dei giovani potenzialmente portatori di valori incompatibili con quelli fondanti la nostra comunità nazionale. Come molti altri, Galli della Loggia mette in particolare l’accento sul principio di uguaglianza tra uomini e donne, individuandolo giustamente come “elemento di base della cultura della comunità italiana”.
Lasciamo da parte l’ovvia considerazione che purtroppo, ogni giorno, la cronaca e l’esperienza ci mostrano come questo sacrosanto principio sia lontanissimo dall’informare il funzionamento concreto della società italiana. Ammettiamo pure che mentalità sessiste e violente siano più diffuse tra le persone “di cultura islamica” (che Galli della Loggia considera esplicitamente il cuore del problema) che tra tutti gli altri. Prendiamo dunque sul serio il legittimo dubbio dell’editorialista e chiediamoci cosa implica in concreto.
Intanto, va chiarito che, se la mentalità sessista del candidato alla cittadinanza si è manifestata in forme violente e penalmente rilevanti, l’accesso alla cittadinanza può comunque essere precluso. Quindi, stiamo parlando di escludere dalla cittadinanza giovani la cui presunta mentalità retrograda non ha dato luogo, almeno finora, a comportamenti illeciti. Ma, concretamente, come funzionerebbe questo filtro culturale e morale, e quali effetti pratici produrrebbe? Fare queste domande non è bizantinismo; al contrario, significa prendere sul serio il dubbio legittimo di Galli della Loggia, rifiutandosi di etichettarlo come pretesto ideologico.
Allora, come funzionerebbe in pratica il filtro anti-sessista? Attraverso un questionario, dei test psicologici, delle indagini condotte a scuola e nell’ambiente familiare? Solo rispondendo a queste domande, l’obiezione di Galli può diventare oggetto di un dibattito serio. Altrimenti, diventa difficile fissare un limite alla presunzione di irriducibile “non integrabilità” di tutti coloro che, per il solo fatto di essere figli o nipoti di musulmani, vengono considerati musulmani anch’essi, per così dire jure sanguinis. Senza un modo concreto per stabilire se un giovane con un retroterra familiare musulmano (non importa se di seconda o, al limite, anche di terza generazione) sia effettivamente portatore di una mentalità inaccettabilmente sessista, si rischia di condannare a priori costui (o costei) all’esclusione dalla cittadinanza, e quindi dal principio democratico.
Ma supponiamo che, invece, un sistema per identificare con certezza il giovane inaccettabilmente illiberale e retrogrado esista. Siamo comunque sicuri che escluderlo per questo dalla cittadinanza e dalla piena parità di diritti e doveri sia la soluzione migliore? Ovviamente, un simile diniego di cittadinanza per “indegnità” culturale e morale non impedirebbe allo straniero in questione, in quanto titolare di un regolare permesso di soggiorno, di continuare a vivere in Italia. Anche se “bocciato” nella sua aspirazione a diventare italiano, questo giovane rimarrebbe membro di fatto della comunità nazionale, sebbene in condizione di minorità giuridica e politica. Ma siamo certi che questo mantenimento ai margini avrebbe un effetto pedagogico? Che servirebbe a convincere il giovane sessista e illiberale della superiorità dei nostri valori? Siamo sicuri che questa esclusione aumenterebbe il grado complessivo di coesione e di sicurezza della nostra comunità nazionale? Non rischierebbe piuttosto di innescare una spirale di ulteriore estraniazione, crescente risentimento e magari persino radicalizzazione violenta?
Certo, come dimostrano le agghiaccianti parabole biografiche di tanti jihadisti europei, essere cittadini non basta a generare vincoli di appartenenza, rispetto e solidarietà. Ma un’estromissione a priori dalla cittadinanza per ragioni culturali o morali rischia di produrre una spinta contraria, favorendo paradossalmente quell’esito nefasto che si voleva prevenire.
Il contributo di Pastore sul tema della cittadinanza e dello jus soli si aggiunge a quelli già pubblicati su Neodemos di Giancarlo Blangiardo (Con lo jus soli nasce la nuova categoria dei minori “scompagnati”); Massimo Livi Bacci (La cittadinanza negata tra malafede e viltà); Enrico De Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin (Cittadinanza per i minori: prendere atto del cambiamento) ; Chiara Saraceno (Il No allo jus soli tra fake news e ragioni deboli)