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Il No allo jus soli tra fake news e ragioni deboli

Accanto alle obiezioni alla legge sullo jus soli da parte degli imprenditori della paura e propalatori delle notizie false, ci sono anche quelle di chi teme che avrebbe conseguenze negative per i minori stranieri stessi e le loro famiglie.

Imprenditori della paura: falsità e malafede

Le obiezioni più note e prevalenti alla legge sullo jus soli (e ius culturae) si basano, come ha ricordato anche Livi Bacci su questo sito (Neodemos, 28 Luglio 2017), su malafede e falsità, allo scopo di attizzare e utilizzare a fini politici la paura dei cittadini per la propria sicurezza e la difficoltà ad accettare chi per qualche caratteristica è diverso da sé. Per questi oppositori, gli attacchi terroristici dell’ISIS, gli sbarchi massicci di inizio estate ed oggi gli stupri di Rimini sono materiale da utilizzare senza scrupoli in modo incendiario per rifiutare l’immigrazione e le necessarie iniziative di integrazione che la devono accompagnare. Questi sono anche un pretesto per guidare la caccia all’untore (le ONG che partecipano ai salvataggi in mare) e per qualificare la legge sullo jus soli come una sorta di cavallo di Troia con cui i nemici verrebbero ad insediarsi nel cuore della nostra società. Tutto ciò con sprezzo totale dell’effettivo contenuto della legge, lasciando viceversa credere che essa consentirebbe di garantire automaticamente la cittadinanza ad ogni bambino nato in Italia a prescindere dal modo in cui ci sono arrivati e risiedono i sui genitori, in particolare la sua mamma. Anche con sprezzo totale della memoria storica, quasi che il terrorismo non abbia avuto in Italia una storia autoctona che ha lasciato una lunga scia sanguinosa, e come se le stragi di mafia non appartenessero alla storia italiana anche recentissima. Non basta essere autoctoni da generazioni e neppure appartenere a ceti socialmente non marginali per essere esenti dal rischio di diventare violenti assassini, terroristi, stupratori. Non basta essere cittadino italiano autoctono per condividere i valori di libertà, democrazia, uguaglianza tra uomini e donne, rispetto dell’altro. Viceversa, non tutti i migranti sono mussulmani. Non tutti i mussulmani sono fondamentalisti islamici aperti alla propaganda terrorista. E non basta, ad un migrante come ad un autoctono, diventare cittadino ed aver frequentato la scuola italiana per acquisire i valori di democrazia e rispetto per la libertà e dignità dell’altro/altra. Quei valori, e la capacità di esprimere un conflitto o un disagio senza annullare l’altro/a, si apprendono e convalidano quotidianamente in famiglia, a scuola, nelle relazioni sociali. Un apprendimento e una modalità di relazioni che ci riguardano tutti e a tutti i livelli, migranti e autoctoni, semplici cittadini e governanti (o aspiranti tali), e che, se non realizzate adeguatamente, possono e devono essere oggetto di sanzioni. La legge sulla cittadinanza, con la sua estrema moderazione e i suoi requisiti stringenti non aumenterebbe in nulla il rischio di terrorismo (e neppure quello di “sottrarre risorse agli italiani”). Al contrario, immetterebbe esplicitamente e strutturalmente i “nuovi cittadini” nel circuito dei doveri e delle responsabilità, oltre che dei diritti, che discendono dal far parte della nostra società.

L’ambiguità di governo e maggioranza

Purtroppo, invece di contrastare quel tipo di narrazione e il pensiero dicotomico – “noi”-“loro” – che la ispira, anche rappresentanti del governo e del partito di maggioranza (PD), a partire dal suo segretario, la usano come giustificazione sia per discutibili scelte di controllo del fenomeno migratorio (colpevolizzazione delle ONG, accordi con la Libia che ignorano a chi, e a quali condizioni, lasciano mano libera sui migranti), sia, appunto, per dichiarare che è meglio soprassedere alla approvazione della legge, di fatto accettando l’improprio collegamento tra fenomeni diversi, senza, per altro, affrontare seriamente la questione di come regolare i flussi migratori e aprire canali legali e protetti per chi vuole, o deve, lasciare il proprio paese e di come si può operare per favorire davvero l’integrazione sia sociale sia culturale. Con il rischio che la mancata approvazione della pur moderatissima legge sullo jus soli/jus culturae favorisca, in alcune frange di giovani aspiranti cittadini frustrati, proprio quella radicalizzazione che tanto si evoca.

Il rischio di creare disuguaglianze intra-familiari: una obiezione ragionevole?

L’obiezione di Blangiardo alla legge sullo ius soli (Neodemos, 28 Luglio 2017) offre agli oppositori della legge motivazioni diverse, e rispettabili, da quelle sopra citate. Blangiardo conosce bene la legge in discussione e non imbroglia le carte. La sua preoccupazione non riguarda la supposta insostenibilità dell’immigrazione e tanto meno lo scontro di civiltà, ma le fratture interne alle famiglie migranti che possono essere provocate da un diverso accesso alla cittadinanza per figli e genitori. Evoca, infatti, una possibile, e a suo parere negativa, creazione di disuguaglianze all’interno delle famiglie migranti (regolari e con permesso di lungo soggiorno), con figli neonati e pre-adolescenti che acquisirebbero subito la cittadinanza italiana mentre i loro genitori e fratelli maggiori rimarrebbero stranieri e dovrebbero seguire eventualmente il più lungo percorso standard. Non è chiaro, tuttavia, perché questa differenza comporti conseguenze negative vuoi per chi acquisisca di diritto la cittadinanza italiana, vuoi per chi invece debba aspettare. I primi avrebbero solo qualche protezione e diritto in più, senza nulla togliere ai secondi. È vero, come ricorda Blangiardo, che non tutti i paesi di origine consentono la doppia cittadinanza. Perciò potrebbe succedere che figli e genitori abbiano cittadinanze diverse. Ma è anche vero che in molti casi i bambini non solo non conoscono il paese da cui sono venuti i genitori, ma questi ultimi (si pensi ai profughi e richiedenti asilo) non possono neppure tornarvi. Senza possibilità di ottenere la cittadinanza italiana prima di raggiungere la maggiore età, questi bambini e ragazzi si trovano di fatto in una situazione di apolidia, senza alcuna copertura legale di cittadinanza (inclusa l’impossibilità di ottenere un passaporto). Infine, non mi risulta che negli Stati Uniti, dove vige lo jus soli più completo, o in Francia, dove è un po’ più temperato, le differenze intrafamiliari nello status di cittadino producano conseguenze negative sui bambini e le loro famiglie.

Anche il timore che questa asimmetria provochi una inversione nei rapporti di autorità tra le generazioni mi sembra francamente infondato, poiché evoca una immagine di famiglia e di rapporti tra le generazioni un po’ arcaico. L’autorevolezza dei genitori si basa sulla loro capacità di accompagnare e sostenere la crescita dei figli. Anche quando venne approvato il nuovo diritto di famiglia in Italia nel 1975 c’era chi temeva che, indebolendo il potere genitoriale (paterno) e mettendo in primo piano i diritti dei figli si sarebbe tout court indebolito l’istituto familiare.

Quanto alla preoccupazione di Blangiardo per possibili “soprusi di genere” ai danni delle bambine da parte dei propri genitori, mi sembra che consentire loro di diventare cittadine italiane senza dover aspettare che lo vogliano diventare e lo diventino i loro genitori, costituirebbe una protezione in più rispetto a ciò che dispongono e il diritto internazionale e e quello nazionale in tema dei diritti dei bambini e delle bambine. Se mai, si potrebbe integrare la legge sullo jus soli con la richiesta che i genitori dei bambini che acquisiscono per nascita o scolarità la cittadinanza italiana vengano sistematicamente coinvolti in iniziative di integrazione culturale e sociale. Ma questa è una esigenza più generale, che non riguarda solo l’acquisizione della cittadinanza.

Anche con la legge attuale sulla cittadinanza si creano disparità intra-familiari

Come sa bene anche Blangiardo, anche la legge attuale sulla cittadinanza crea disparità entro la stessa famiglia. Se è vero, infatti, che nell’acquisire la cittadinanza italiana i genitori la estendono automaticamente anche ai figli minorenni, ciò non vale per quelli maggiorenni. Questi devono a loro volta intraprendere il proprio iter individuale, anche se sono arrivati bambini, sono andati a scuola qui e sono diventati maggiorenni prima che i loro genitori prima maturassero il diritto a chiedere la cittadinanza, poi la ottenessero. Sono casi non infrequenti, stanti i requisiti e la lunghezza delle procedure, per quanto ultimamente sveltite (ma con grandi differenze territoriali). Per questo la legge in discussione prevede anche uno jus culturae, accanto allo jus soli. Il fatto che siano maggiorenni non elimina il fatto che sono anche fratelli/sorelle e figli di persone che hanno (anche) una cittadinanza diversa dalla loro e con cui spesso continuano ad abitare e condividere risorse e vita. Non dovrebbe essere problematico anche questo, nell’ottica dell’obiezione sollevata da Blangiardo?

Per concludere, Blangiardo solleva questioni che richiedono attenzione, ma che, a mio parere, non inficiano l’opportunità di approvare le norme sullo jus soli. Piuttosto, rovesciando un po’ il suo ragionamento, richiedono che nelle norme applicative se ne tenga conto, in particolare per quanto riguarda la possibile discriminazione tra figli e figlie (se la legge lascia ai genitori la scelta di chiedere o meno la cittadinanza per loro).

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