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Cittadinanza per i minori: prendere atto del cambiamento

Dopo un’estate di acceso dibattito, il Senato ha rinviato (all’autunno?) la votazione della proposta di legge in materia di introduzione dello ius soli (modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91), già approvata due anni fa alla Camera (Settembre 2015). La questione è complessa e coinvolge diverse dimensioni (giuridica, sociale, culturale), ma è innanzitutto una questione identitaria: definendo chi è “Italiano”, si delimita la comunità generando differenze fra “cittadini” e “stranieri”. In un intervento su Neodemos (28 luglio 2017) Livi Bacci si è detto giustamente amareggiato per un rinvio che ha un sapore chiaramente politico. Ma, diciamoci la verità: nella discussione su questa legge aleggia, anche se non emerge mai chiaramente, la preoccupazione che i nuovi cittadini (oggi minori ma domani adulti) possano alterare gli equilibri politici del Paese, divenendo nuovi elettori. E’ poco probabile: ma sarebbe utile e chiarificatore sapere quanti, del milione di nuovi cittadini emersi nell’ultimo quindicennio, si siano recati effettivamente alle urne per le elezioni politiche ed amministrative.

Il percorso della riforma tra favorevoli e contrari

Il tema della cittadinanza da conferire ai bambini nati sul suolo italiano da genitori stranieri era già stato affrontato nella passata legislatura (2008-2013) dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal Presidente della Camera Gianfranco Fini, che più volte ne avevano auspicato l’introduzione, vista la crescente presenza di bambini nati in Italia da genitori stranieri. Nel 2013 il tema fu riproposto dal Ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge, riaprendo un dibattito che ha portato nel settembre 2015 all’approvazione della riforma alla Camera.

I promotori della riforma sostengono che sia anacronistico non concedere la cittadinanza a questi bambini, considerando che sono nati in Italia, hanno frequentato le scuole nel nostro Paese e molto spesso non hanno mai visitato il Paese dei propri genitori. L’attuale modello, infatti, fu pensato quando l’Italia era un Paese di emigranti: privilegiando il legame di sangue, si intendeva mantenere un legame con i figli degli Italiani emigrati in Argentina, Brasile, Stati Uniti o Australia. Oggi, indubbiamente, le dinamiche demografiche sono radicalmente cambiate e l’Italia, da Paese di emigranti, è diventato Paese d’accoglienza per molti cittadini stranieri.

D’altra parte, i dubbi degli scettici sono principalmente legati al possibile effetto di questa normativa sui fenomeni migratori. Si teme, insomma, che questa “concessione” possa attrarre nuovi immigrati, aggravando una situazione sociale già delicata. In secondo luogo, molti ritengono che il diritto “del suolo” non sia un criterio sufficiente per concedere la cittadinanza, che invece dovrebbe considerare fattori culturali, linguistici e, appunto, di sangue.

Va ricordato altresì, a quanti si ostinano a manifestare “contro l’introduzione dello jus soli in Italia”, che in Italia lo jus soli esiste già: è infatti il principio che regola l’accesso alla cittadinanza per i nati in Italia, oggi attivabile solo al compimento della maggiore età. La riforma, dunque, non introduce per la prima volta lo ius soli, ma modifica i criteri per accedervi.

La situazione in Europa

Del resto, anche a livello europeo la questione è tutt’altro che omogenea: ogni Paese, in base alla propria storia, ha elaborato un proprio modello cercando di equilibrare jus soli e jus sanguinis.

Alcuni paesi, come Francia, Germania e Gran Bretagna, presentano uno jus soli quasi automatico, legato alla regolarità del soggiorno dei genitori. Oltre all’Italia, solo Austria e Danimarca non prevedono il meccanismo dell’acquisizione per i nati sul territorio nazionale.

L’impatto (potenziale) della riforma

Come è noto, i casi previsti dalla riforma sono due:

  1. Jus soli temperato. Si riconosce (il diritto a richiedere) la cittadinanza italiana a chi è “nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno in possesso del permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo (cittadini extra Ue) o il “diritto di soggiorno permanente” (cittadini Ue)”.

In questo modo potrebbero acquisire la cittadinanza italiana i figli di immigrati nati in Italia dal 1999 ad oggi (oggi ancora minorenni) i cui genitori sono in possesso del Permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo (cittadini extra Ue) o il “diritto di soggiorno permanente” (cittadini Ue). Considerando che i nati stranieri negli ultimi 17 anni sono stati 976 mila e che, secondo una recente indagine Istat, circa il 65% delle madri straniere risiede nel nostro paese da più di cinque anni, si stima che i nati stranieri figli di genitori residenti da almeno 5 anni siano 635 mila.

  1. Jus culturae. Beneficiario è “il minore straniero, che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età. Egli acquista di diritto la cittadinanza qualora abbia frequentato regolarmente (ai sensi della normativa vigente) un percorso formativo per almeno cinque anni nel territorio nazionale”.

Partendo dai dati del MIUR relativi all’anno scolastico 2015/2016 (secondo cui gli alunni stranieri nati all’estero erano il 58,7% degli alunni stranieri complessivi, ovvero 478 mila alunni), possiamo stimare in 166 mila gli alunni nati all’estero che hanno già completato 5 anni di scuola in Italia.

A questi 800 mila potenziali beneficiari immediati (circa l’80% del milione di minori stranieri residenti al 2016), cifra che rappresenta un valore massimo comprensivo dei minori già diventati italiani per trasferimento del diritto da parte del genitore che ha ottenuto la cittadinanza, vanno aggiunti i potenziali beneficiari che si aggiungeranno ogni anno (nuovi nati o coloro che completeranno i 5 anni di scuola), per una cifra compresa tra 55 e 62 mila.

Tendenze demografiche e “nuovi italiani”

Nell’intervento su Neodemos (28 luglio 2017) Gian Carlo Blangiardo esprime preoccupazione circa le conseguenze negative per la coesione del nucleo familiare implicite nella nuova normativa, che a suo dire determinerebbe “un bambino “diverso” da genitori e fratelli”, finendo “per confliggere con l’interesse degli stessi minori e delle loro famiglie”.

A tal proposito, allora, anziché continuare a negare la cittadinanza ai minori, sarebbe opportuno ragionare sui meccanismi delle naturalizzazioni degli adulti, al momento esclusi dalla proposta di riforma. Non va dimenticato, infatti, che attualmente l’Italia ha una normativa assai restrittiva in materia di cittadinanza degli adulti (occorrono 10 anni di residenza per avanzare la richiesta, che diventano poi 13 o 14 per lentezze amministrative, contro gli 8 anni della Germania o i 5 di Francia e Regno Unito). Due ipotesi possibili: ridurre gli anni necessari per la richiesta di cittadinanza degli adulti oppure (lasciando inalterata la normativa) rafforzare l’apparato amministrativo preposto a questo scopo, affinché i dieci anni diventino reali.

Per quanto si voglia negare l’evidenza, il trend delle acquisizioni di cittadinanza evidenzia la tendenza dell’immigrazione a radicarsi nel Paese: se nel 2006 le naturalizzazioni erano appena 35 mila, nel 2013 hanno superato quota 100 mila e nel 2016 sono state oltre 200 mila. Complessivamente, negli ultimi 10 anni i “nuovi italiani” sono quasi 1 milione. Più del 60% di questi erano maggiorenni al momento della concessone della cittadinanza, naturalizzati per matrimonio o per aver totalizzato 10 anni di residenza. Oltre un quinto del totale delle naturalizzazioni nella UE avvengono in Italia.

L’attuale legge sulla cittadinanza (datata 1992) risale ad un’epoca molto diversa da quella attuale: allora gli stranieri residenti erano 573 mila, oggi sono 5 milioni; gli arrivi erano piuttosto omogenei (in prevalenza provenienti dall’Albania e dall’ex Jugoslavia) e gli immigrati erano quasi esclusivamente adulti. Dopo aver rimandato la questione per oltre vent’anni, è forse giunto il momento di considerare seriamente i ragazzi di “seconda generazione” e decidere se considerarli italiani o stranieri.

 

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