L’eccessivo rigoglio demografico fu parte integrante – fino agli anni ’60 – delle discussioni attorno alla “questione meridionale”. Diversamente da allora, è la depressione demografica che comprime lo sviluppo del Mezzogiorno. Ne parla Massimo Livi Bacci, anche sulla base del documentato Rapporto Svimez 2023, da poco pubblicato.
Nel 1970, la demografia del Mezzogiorno non aveva ancora smarrito la sua tradizionale vivacità. Le donne meridionali mettevano al mondo una media di tre figli, quasi uno in più rispetto al resto del paese, e assicuravano una robusta crescita della popolazione. La questione meridionale, mezzo secolo fa, aveva ancora una natura demografica: natalità alta, forte crescita della popolazione attiva, emigrazione verso il nord del paese e del continente. Il 1970 mise fine al rigoglioso ciclo demografico del dopoguerra: da allora, la riproduttività ha iniziato a declinare, raggiungendo in anni recenti, i livelli del Centro Nord, da tempo tra i più bassi d’Europa; l’emigrazione verso l’estero si è attenuata, con uscite più che compensate dall’arrivo degli stranieri; la crescita della popolazione si è attenuata, fino a diventare negativa a partire dal 2012. Se fino al 1970 il rigoglio demografico era considerato un freno allo sviluppo, oggi si imputa la scarsa crescita (anche) al suo contrario: “il gelo” o “l’inverno” demografico, e la “desertificazione” umana ad esso collegata. Il Rapporto Svimez1, da poco pubblicato, conferma questa conclusione con una gran messe di dati; l’Istat ha prodotto previsioni che indicano una perdita di quattro milioni di abitanti nei prossimi trent’anni, nonostante una lieve ripresa della natalità.
Popolazione in declino
Tra il 2001 e il 2022, la popolazione residente del Mezzogiorno ha perso 700mila unità, somma algebrica di una perdita di 1,35 milioni di italiani, solo in parte compensata dalla crescita di 650mila stranieri (Tab. 1). Il Centro-Nord, invece, ha aumentato la propria popolazione di 2,55 milioni, e la relativamente modesta perdita di italiani (mezzo milione) è stata largamente compensato dal forte afflusso di stranieri, cresciuti di quasi 3 milioni2. Si noterà anche che nel breve triennio dominato dal Covid (2019-22), il Mezzogiorno ha perso 400mila residenti, e la componente straniera si è nel frattempo debolmente assottigliata. La bassa riproduttività è un fenomeno oramai strutturale nel Mezzogiorno e sarà la “forza” che nel prossimo futuro determinerà il corso al ribasso della popolazione meridionale. Nel 2022, la regione meridionale con il più alto numero di figli per donna era la Sicilia (1,35), e quella col più basso numero la Sardegna (0,95), due valori sensibilmente inferiori al massimo e al minimo del Centro Nord, con il Trentino Alto Adige regione più prolifica (1.55) e l’Umbri quella meno prolifica (1,13). Bassa riproduttività e bassa attrattività migratoria (sia dall’interno che dall’estero), fanno del Mezzogiorno un’area fortemente depressa. Con riferimento alla tradizionale migrazione sud-nord, osserva il Rapporto Svimez che “Le migrazioni interne dal Mezzogiorno al resto del Paese degli ultimi due decenni hanno interessato coorti di più ridotte dimensioni con un più elevato grado di istruzione, un’equilibrata presenza femminile e soprattutto giovani in condizione riproduttiva. Ciò ha contribuito ad accentuare gli squilibri con il Nord. Il Sud invecchia «dal basso» per sottrazione di giovani che, lasciando le regioni meridionali, favoriscono, nel resto del Paese, la crescita della popolazione e, al tempo stesso, un suo più equilibrato rapporto intergenerazionale.3”
Spopolamento delle “aree interne”
Nel trentennio successivo alla fine della seconda Guerra Mondiale, l’abbandono delle zone rurali montane, collinari e di pianura conseguenti all’intenso sviluppo industriale e urbano fu l’aspetto più profondo e visibile del cambiamento del paese. Questo processo si è poi attenuato nei decenni successivi, in modo assai marcato a nord, più lentamente a sud, ma è alla base della maggiore arretratezza di quelle che verranno poi definite “aree interne”, svuotate di abitanti, con infrastrutture e servizi spesso carenti, e benessere inferiore a quello prevalente nel resto del paese. Quasi un terzo del bilancio dell’Unione Europea è destinato alle politiche di coesione, volte a ridurre le differenze economiche e sociali tra le regioni dei 27 paesi. In Italia esiste un’Agenzia governativa il cui compito è quello di pilotare le Strategie Nazionali delle Aree Interne (Snai), che, come spiega la stessa Agenzia, “mira a contrastare la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico delle aree interne del Paese”, problemi particolarmente gravi nel nostro Mezzogiorno. Il cui ritardo, rispetto al resto del paese, è rimasto invariato negli oltre 160 anni di unità nazionale. Accenniamo a questi complessi problemi anche per spiegare perché attiriamo l’attenzione sulla Tabella 2. Questa riporta l’andamento della popolazione nelle cosiddette aree interne (che comprendono il 59% della superficie del Paese, con appena il 23% della popolazione totale), definite come quei gruppi di comuni mancanti di almeno una di tre infrastrutture fondamentali (“servizi essenziali”) per sanità, istruzione e mobilità. Ovvero, un ospedale bene attrezzato, una “offerta scolastica superiore” (liceo, istituto tecnico), una stazione ferroviaria non secondaria e con buoni collegamenti. Le aree “non interne” (nella Tabelle 2 “centri”) hanno la disponibilità di tutti e tre servizi. Le aree interne inoltre sono classificate in “intermedie”, “periferiche” e “ultraperiferiche” in ragione della loro distanza dai Centri4. La lettura della semplice tabella 2 suggerisce due considerazioni. Nel periodo 2011-2023, la popolazione del Mezzogiorno – è diminuita del 5,2%, scomponibile in -4% per i “centri” e -7,3% per il totale delle “aree interne”. Tra queste ultime c’è un evidente – e atteso – gradiente strutturale, legato all’isolamento: la diminuzione è maggiore per le zone “ultraperiferiche” (-11,7%), e minore per quelle periferiche (-8,7%) e per quelle intermedie (-5,8%). È tuttavia sintomatico che anche le aree centrali, provviste dei servizi essenziali, abbiano cessato di essere attrattive, e perdano popolazione. Oramai anche il Mezzogiorno fa parte della “società dei seniores” che caratterizzerà il prossimo mezzo secolo, e che sollecita una rivoluzione culturale, politica e sociale nel nostro modo di guardare al futuro.
Prepariamoci per una società di Seniores
Le previsioni demografiche a lungo termine – diciamo oltre un quarto o un terzo di secolo – sono, come noto, molto fragili: “oroscopi” vennero appropriatamente definite. Una volta scontate le spinte “inerziali”, la possibile evoluzione della propensione ad avere figli, o a migrare, resta incognita. Sappiamo però, con buoni fondamenti, che la società italiana, a nord come a sud sarà una società di seniores. Molti si cullano nell’aspettativa che una ripresa della natalità o un sufficiente apporto dell’immigrazione possa riequilibrare la struttura per età del paese. Gli specialisti sanno bene che questo potrà, eventualmente, solo rallentare il passo.
Note
1Svimez, Rapporto Svimez 2023. L’economia e la società del Mezzogiorno, Bologna, il Mulino, 2023
2 Tra i residenti italiani sono compresi gli stranieri che hanno acquisito la nazionalità italiana. Si tratta di varie centinaia di migliaia di persone.
3Svimez, Rapporto 2023, cit. pp. 105-106
4Istat, La geografia delle aree interne nel 2020: vasti territori tra potenzialità e debolezze, Focus, 20 luglio 2022