In questo anno e mezzo di pandemia, le minoranze immigrate hanno patito conseguenze assai più pesanti, nel complesso, rispetto alla maggioranza autoctona. Ferruccio Pastore ci spiega che mentre questo impatto differenziale continua ad essere ignorato dai media e dalle istituzioni, si delinea un altro pericoloso fronte di discriminazione strutturale nell’accesso alla vaccinazione per le frange più marginali della popolazione immigrata. A livello internazionale, il drammatico divario tra Europa e Africa nei livelli di copertura vaccinale rischia di tradursi in livelli ancora più elevati di chiusura verso migranti forzati in cerca di sicurezza e protezione.
L’integrazione in tempi di pandemia
A marzo 2020 ci interrogavamo sul possibile impatto della pandemia sui processi di integrazione degli immigrati nella società italiana con riferimento a due parametri essenziali: la loro posizione socio-economica relativa rispetto ai nativi e i rapporti tra le due categorie, con particolare riguardo agli effetti dell’emergenza sanitaria sul pregiudizio xenofobo (Neodemos – l’integrazione ai tempi del contagio).
Quanto alla prima dimensione, la facile profezia di un aggravamento delle disuguaglianze occupazionali legate all’origine e alla condizione amministrativa è stata purtroppo confermata in pieno. Come mostrano Quaranta, Trentini e Villosio in una recente analisi, mentre nella prima metà del 2020 (rispetto al periodo corrispondente dell’anno precedente) l’occupazione degli italiani è calata del 2,8%, il crollo dell’impiego straniero è stato quasi quadruplo (10,4%). Siamo dunque di fronte a una drammatica “emergenza nell’emergenza”, sconsideratamente ignorata nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), inviato a Bruxelles alla fine di aprile.
Per quanto riguarda, invece, l’impatto della pandemia sulle relazioni tra nativi e immigrati, a inizio pandemia registravamo segnali contrastanti: fiammate di pregiudizio, ma anche inedite spinte di solidarietà. A distanza di un anno, il quadro rimane in chiaroscuro. In una delle poche indagini quantitative realizzate finora, focalizzata sugli atteggiamenti verso la “comunità cinese” (o, meglio, quella che viene percepita come tale), Girardelli, Crouch e Nguyen concludono che i contatti intergruppo (cioè tra nativi e persone percepite come “cinesi”) acuirebbero la percezione della minaccia, mentre il livello di istruzione non avrebbe un’incidenza statisticamente significativa. In entrambi i casi, si tratta di conclusioni divergenti rispetto alla letteratura prevalente. Questo scostamento sembra suggerire che, in un contesto straordinario come quello della pandemia, anche le dinamiche di formazione e diffusione del pregiudizio risultano alterate.
Quando si passa dal piano delle percezioni a quello dei comportamenti, ad oggi in Italia gli episodi di mobilitazione collettiva contro minoranze immigrate in quanto presunte portatrici di contagio sono stati fortunatamente rari e isolati. Ma, in contesti di forte ghettizzazione e intenso sfruttamento lavorativo, la difficoltà di rispettare le precauzioni elementari (spesso a causa della contrarietà dei datori di lavoro) espone la minoranze immigrata a un’ostilità accresciuta da parte dei nativi. E’ per esempio quello che viene denunciato nel caso delle migliaia di lavoratori stranieri, perlopiù indiani, nei campi dell’Agro Pontino.
Un nuovo fronte di disuguaglianza
Oggi, mentre la campagna vaccinale avanza e un cauto ottimismo si diffonde nel paese, ci troviamo a un passaggio delicato, in cui è necessario allargare l’attenzione dalle disparità nei rischi di contagio e in quelli occupazionali alle disuguaglianze nell’accesso ai vaccini. I principi di sanità pubblica sono chiari nell’indicare la necessità di sforzi vaccinali mirati verso categorie marginali. Per quanto riguarda in particolare i migranti, esistono linee-guida apposite a livello internazionale. Anche in Italia, ben prima di questa pandemia, il Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale (PNPV) per il triennio 2017-2019 metteva esplicitamente a fuoco il problema “rappresentato dai cosiddetti ‘gruppi vulnerabili’ o ‘difficili da raggiungere’, tra cui gli immigrati, soprattutto se irregolari, ed i rifugiati, […] spesso poco e male integrati nella società, con difficoltà di accesso ai servizi di prevenzione e a quelli di assistenza sanitaria che, di conseguenza, frequentemente sfuggono agli interventi di prevenzione che hanno come target la popolazione generale e che, pertanto, dovrebbero essere oggetto di strategie e azioni ad hoc [per evitare] che si creino nella popolazione ‘sacche’ di soggetti non vaccinati o incompletamente vaccinati” (p. 37).
Il principio generale è affermato chiaramente anche sul sito dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), dove alla domanda “Chi ha diritto alla vaccinazione?” si risponde “Tutte le persone residenti o stabilmente presenti sul territorio italiano, con o senza permesso di soggiorno, che rientrano nelle categorie periodicamente aggiornate dal Piano Vaccinale”.
Ma, nel momento in cui la campagna vaccinale entra nel vivo anche per le persone giovani o comunque in età lavorativa (in cui si concentra la vastissima maggioranza degli immigrati), il principio incontra ostacoli pratici sempre più evidenti. Come rileva un’associazione di tutela, “il diritto è chiaro, quasi impossibile invece esercitarlo, perché i sistemi di prenotazione online possono essere utilizzati solo con la tessera sanitaria”. La stessa fonte segnala che, sul sito dell’AIFA, fino a qualche settimana fa esistevano indicazioni chiare in materia (“In mancanza di un qualsiasi documento verranno registrati i dati anagrafici dichiarati dalla persona e l’indicazione di una eventuale ente-struttura-associazione di riferimento”), che però da allora sono state rimosse.
In mancanza di indirizzi inequivocabili a livello nazionale, anche in questo caso, come su tante altre questioni delicate, le Regioni procedono in ordine sparso. Il quadro è confuso e in rapida evoluzione; a fine maggio, per esempio, la Regione Liguria prevedava la possibilità della prenotazione della vaccinazione anche per stranieri temporaneamente soggiornanti privi del codice STP (che sta per “Straniero Temporaneamente Presente” e in condizioni normali consente l’accesso a prestazioni essenziali anche a cittadini di paesi terzi in condizione di irregolarità). In Lombardia, invece, pare che gli immigrati privi di documenti potranno essere vaccinati solo al termine della campagna generale e solo se in attesa di regolarizzazione.
Sono evidentemente necessari un rapido intervento chiarificatore e un indirizzo omogeneo; ma, come raccomanda un recente rapporto dello European Centre on Disease Prevention and Control (ECDC), servono anche sforzi organizzativi e comunicativi mirati. Altrimenti, potrebbero persistere “sacche” di popolazione straniera non vaccinata che, oltre a pregiudicare una piena eradicazione del SARS-CoV-2 dalla società italiana, potrebbero anche ravvivare i rischi di scapegoating etnico e xenofobia. L’entità della minaccia non è esigua, se si considera che, alla vigilia della regolarizzazione dell’estate 2020, la presenza irregolare era stimata in centinaia di migliaia di individui (quasi 700mila secondo Fondazione ISMU) e che la regolarizzazione stessa ha interessato poco più di 200mila persone (di cui peraltro, a sei mesi dall’avvio della procedura di emersione, meno dell’1% aveva ottenuto un responso definitivo).
Disuguaglianze vaccinali: il fronte esterno
Ma le disuguaglianze vaccinali rischiano di pregiudicare ulteriormente la percezione e la condizione dei migranti nelle società europee anche per un’altra via.
Com’è noto, a livello globale si registrano variazioni territoriali enormi nel livello di copertura vaccinale: un quadro dettagliato e dinamico di grande utilità è fornito dal New York Times sulla base di dati prodotti dal progetto Our World in Data dell’Università di Oxford. Secondo questa fonte, alla data del 25 maggio 2021, la copertura per continenti era massima per l’America settentrionale e minima per l’Africa (vedi tabella).
Il recente Global Health Summit (Roma, 21 maggio 2021) ha solennemente proclamato l’immunizzazione un “bene pubblico globale” e, tramite l’iniziativa COVAX, la comunità internazionale sta intensificando gli sforzi per promuovere la campagna vaccinale nei paesi più poveri. Cionostante, i divari globali e in particolare il ritardo dell’Africa sono destinati a permanere a lungo: secondo la programmazione attuale, a fine 2021 solo il 20% della popolazione africana sarà immunizzato.
Lo scenario che si delinea, con occhio alle implicazioni in tema di migrazioni, è purtroppo chiaro. A partire dalla seconda metà di quest’anno, l’Europa entrerà progressivamente in una condizione di temporanea immunità di massa, la cui durata dipenderà dalla copertura effettiva assicurata dai vaccini usati e non è al momento determinabile in maniera precisa. Frattanto, nel continente africano, da cui proviene attualmente la maggior parte dei flussi migratori irregolari diretti verso l’Europa, persisterà a lungo un basso livello di copertura vaccinale.
Non è difficile prevedere come questo décalage, combinato con il probabile sviluppo di nuove varianti del Coronavirus, possa contribuire ad alimentare diffidenze e ostilità verso gli arrivi lungo le rotte mediterranee, riducendo ulteriormente la propensione dei governi europei ad accogliere, redistribuendo tale responsabilità al di là della ristretta cerchia degli stati membri geograficamente più esposti.
Anche per questo, il governo italiano sta elaborando piani per poter assicurare la quarantena di un numero significativo di migranti su apposite navi (fino a 3500 posti su cinque navi, secondo alcune fonti). Ma queste sono soluzioni-tampone, che già in passato hanno rivelato gravi limiti.