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Una “tassa” sulla speranza di vita?

Un recente articolo su “Repubblica”, a firma di Marco Ruffolo (12 novembre 2009) ricorda che, a partire dal 1° gennaio 2010, per i nuovi pensionati, le pensioni saranno più basse, a parità di contributi versati, perché si allunga il periodo di quiescenza, a causa dell’allungamento della durata residua della vita (v. anche Alessandro Rosina, Lunga vita alle donne?). Il giornalista parla quindi di “tassa” sulla speranza di vita, e lamenta l’iniquità di un meccanismo previdenziale che costringe a lavorare di più per prendere di meno. I lettori, unanimi, aggiungono commenti rivolti contro il sistema, i politici, i governi (presente e passati), lo stato, … Ma come stanno le cose?
Il mistero dei coefficienti
Con la riforma Dini (L. 335/95, la legge previdenziale in vigore in Italia dal 1996, pur se più volte modificata), quello che è cambiato rispetto al passato è il passaggio al cosiddetto “sistema contributivo”: la pensione corrisponde (tendenzialmente) a quello che si è versato in contributi durante la vita lavorativa. Numerosi elementi, però, complicano il quadro. Uno di questi è la salvaguardia dei “diritti acquisiti”, per cui il nuovo sistema di calcolo vale pienamente solo per i lavoratori giovani (entrati al lavoro dal 1996), parzialmente per i lavoratori medi (con meno di 18 anni di contribuzione al 1° gennaio 1996) e per niente per i lavoratori anziani. Bella fregatura per i più giovani! Comunque, ignoriamo per ora queste differenze, e parliamo solo del sistema come dovrebbe funzionare “a regime” (cioè per i lavoratori più giovani).
Il principio è semplice: ipotizziamo il caso di Zeno, che ha lavorato per tre periodi, e pagato contributi per, rispettivamente, 100, 50 e 150. Complessivamente Zeno ha versato 300 alle casse dell’INPS, e questa somma costituisce il suo “capitale virtuale”. E’ solo virtuale, perché l’INPS non ha messo da parte questi soldi: li ha usati per pagare le pensioni, anno per anno. Ma l’INPS spera adesso di poter ripagare Zeno, sfruttando i contributi che altri lavoratori verseranno da oggi in poi – e sapendo che, tanto, se i contributi non basteranno, lo stato interverrà a sostegno, come sempre e pesantemente ha fatto negli ultimi anni, tutti caratterizzati da forti squilibri previdenziali (Gustavo De Santis, Pensioni: dati freschi per un tema ancora caldo).
OK, risolto il problema del finanziamento, resta quello del calcolo della pensione. Come si fa? Si prevede il numero di periodi per i quali Zeno ancora camperà, e si divide il capitale virtuale per questo numero. Quindi, se Zeno campasse ancora un solo periodo, la sua pensione sarebbe di 300 (=300/1); se campasse per 2 periodi, la sua pensione sarebbe di 150 (=300/2); e se campasse per 3 periodi, la sua pensione scenderebbe a 100 (=300/3). Un altro modo di dire la stessa cosa è argomentare che la pensione di Zeno si determina moltiplicando il capitale virtuale (300) per opportuni “coefficienti di trasformazione” che sono pari, rispettivamente, a 1, a 0,5 e a 0,33 nei tre casi ipotetici considerati.
Coefficienti vecchi e nuovi
La vita vera, però, è più complicata, perché bisogna considerare che sui capitali virtuali accumulati da Zeno si accumulano interessi, e questi interessi intervengono anche durante il periodo di quiescenza, dal momento che Zeno non esaurisce immediatamente tutto il suo capitale. Ma se, per semplicità ignoriamo gli interessi, possiamo passare dai coefficienti di trasformazione alla vita residua prevista per i nostri “Zeni” – sia con i coefficienti attuali, sia con quelli che entreranno in vigore dal 2010 (tab. 1).
Tab.1. Coefficienti di trasformazione per il calcolo dell’assegno pensionistico annuale e loro conversione in anni di vita residui, secondo alcune ipotesi semplificatrici(*)
Coefficienti (%)

 

Vita media residua (anni)

 

Età

 

Vecchi

 

Nuovi

 

variazione

 

Vecchi

 

Nuovi

 

variazione

 

57

 

4,720

 

4,419

 

-6,4%

 

21,2

 

22,6

 

6,8%

 

58

 

4,860

 

4,538

 

-6,6%

 

20,6

 

22,0

 

7,1%

 

59

 

5,006

 

4,664

 

-6,8%

 

20,0

 

21,4

 

7,3%

 

60

 

5,163

 

4,798

 

-7,1%

 

19,4

 

20,8

 

7,6%

 

61

 

5,334

 

4,940

 

-7,4%

 

18,7

 

20,2

 

8,0%

 

62

 

5,510

 

5,093

 

-7,6%

 

18,1

 

19,6

 

8,2%

 

63

 

5,706

 

5,257

 

-7,9%

 

17,5

 

19,0

 

8,5%

 

64

 

5,911

 

5,432

 

-8,1%

 

16,9

 

18,4

 

8,8%

 

65

 

6,136

 

5,620

 

-8,4%

 

16,3

 

17,8

 

9,2%

 

(*) Assenza di inflazione e tasso di interesse pari a zero.
La tabella, come la legge, prevede flessibilità nell’età pensionabile, tra i 57 e i 65 anni e, come si vede, prima si smette di lavorare, meno si prende di pensione, perché più lunga è la durata residua della vita. Ad esempio, un lavoratore dipendente con 30 mila euro/anno di reddito lordo, e quindi 10 mila euro/anno di contributi, versati per 35 anni, ha un capitale virtuale di 350 mila euro (interessi esclusi). Se va in pensione a 57 anni, questo capitale si moltiplica per 4.72%, e dà una pensione di 16.500 euro/anno. Se invece ci va a 65 anni, moltiplica per 6.136%, e ottiene una pensione di 21.500 euro/anno. (Valori arrotondati, beninteso.)
Questo è vero fino al 31 dicembre 2009, ma dal 1° gennaio 2010 le cose peggiorano: con i nuovi coefficienti le pensioni scendono del 6-8% e si riducono, all’incirca, a 15.500 e a 19.700 euro/anno, con pensionamento, rispettivamente, a 57 e a 65 anni.
Ciò che veramente non va
Prima di procedere, ricordiamo che un sistema previdenziale a ripartizione non crea risorse: si limita a ridistribuire quello che ha sottratto con i contributi. Bene: visto che non c’è creazione di reddito, che male c’è nell’avere coefficienti che si adeguano alla più lunga durata della vita da pensionato? Alla fine, uno riceve comunque, come pensione, quello che ha versato in contributi: solo che ne riceve meno ogni volta, ma per un periodo più lungo. I conti tornano, no?
La mia personale opinione è che il male stia nelle cose di cui quasi nessuno parla, e cioè:
1) i coefficienti non sono adeguatamente pubblicizzati: io, dopo lunghe ricerche su internet, li ho trovati solo su siti non ufficiali (giornali, blog, sindacati, e simili);
2) il criterio per il calcolo di questi coefficienti non è adeguatamente pubblicizzato: io, dopo lunghe ricerche su internet, non lo ho trovato da nessuna parte. E’ perché, tanto, il sistema è troppo complicato e nessuno lo capirebbe? Forse. Capisco che ciò faccia la gioia degli attuari. Capisco meno un paese che accetta supinamente questa situazione, tanto più che un sistema di calcolo alternativo, e più semplice, sarebbe possibile[1];
3) il salto dei coefficienti è notevole, da un giorno all’altro. E’ perché la durata della vita è balzata improvvisamente in avanti? No, è solo perché non si è proceduto a una loro revisione più tempestiva. Già era assurda l’idea di rivederli solo dopo 10 anni, e cioè nel 2005. Poi, naturalmente, la data è passata invano, e la revisione arriva solo adesso. 15 anni dopo la riforma Dini, durante i quali la durata media della vita è cresciuta di un bel po’, circa 4 anni. Ecco perché oggi c’è il salto. In futuro andrà un po’ meglio, con revisioni triennali. Ma se il sistema di calcolo è ora automatico, perché non farlo annuale, come sarebbe più logico?
4) l’abbassamento della pensione, questo e quelli futuri, vale solo per chi va in pensione da quel momento in poi, non per chi è già in pensione. E’ perché solo i giovani camperanno più a lungo? Ma niente affatto: la riduzione dei rischi di morte avviene a tutte le età e anzi i cambiamenti più significativi si registrano proprio per i più anziani. E allora, perché? Come sempre, lo si fa per tutelare i vecchi, a danno dei giovani (beh, relativamente parlando: sempre di pensionati si tratta);
5) l’allungamento della durata della vita si traduce in pensioni più basse e non in un allungamento del periodo lavorativo. E’ forse perché quelli che si aggiungono sono anni di cattiva salute e di scarse prestazioni lavorative? Mediamente no: le condizioni di salute sono venute migliorando nel tempo[2] e la produttività dei lavoratori anziani non sembra significativamente più bassa, pur con le mille cautele che sempre bisogna usare in queste misurazioni. E quindi? Beh, qui la risposta è più difficile, probabilmente legata al salario dei lavoratori anziani (che cresce troppo, più della loro produttività) e all’idea, in generale falsa, che si debbano mandare via i vecchi, per far largo ai giovani;
6) non c’è nessuna garanzia che i soldi versati dai lavoratori, anno per anno, bastino a pagare le pensioni, calcolate con questo sistema. La differenza la paga Pantalone: lo stato, e cioè tutti noi. E si tratta di montagne di soldi.
Insomma, mi pare che si critichi quello che in fondo va bene (coefficienti più bassi) e non quello che invece non va (il resto, elencato qui sopra). Che strano paese!

[1] V. G. De Santis, Previdenza: a ciascuno il suo?, Bologna, Il Mulino, 2006.

 

[2] V. F. Ongaro e S. Salvini (a cura di) Rapporto sulla Popolazione. Salute e Sopravvivenza, Il Mulino, 2009, e in particolare il cap. 2, di V. Egidi e S. Salvini.
(*) Articolo presente anche su www.nelmerito.com
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