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Covid: “effetti collaterali”

In periodi di crisi le disuguaglianze formali e sostanziali si intensificano. Le persone più vulnerabili e fragili, le più emarginate, possono difendersi meno dalla malattia e ricevono meno sostegno essenziale alla loro sopravvivenza. Come osserva Patrizia Farina il virus si diffonde senza fare distinzioni, ma la precarietà giuridica, alloggiativa, lavorativa e perfino esistenziale dei gruppi più vulnerabili genera rischi differenziati per la salute e viola il diritto ad un’esistenza dignitosa.

Nel corso delle ultime settimane si è molto discusso delle conseguenze economiche dell’epidemia, delle misure per attenuarne gli effetti e delle strategie di ritorno alla normalità. Molti, Neodemos compreso, si sono cimentati nelle stime dei contagiati e dei deceduti, della capacità del virus di diffondersi e della sua “reale” letalità. Queste attenzioni, senz’altro motivate, dominano la scena pubblica e mediatica relegando in un angolo piuttosto buio altri non meno importanti effetti che val la pena di mettere in evidenza.

Un diverso modo di colpire

In periodi di crisi come quello che stiamo attraversando le disuguaglianze formali e sostanziali si intensificano e diventano più evidenti. Nel nostro paese come nel resto del mondo, le persone più vulnerabili e fragili, le più emarginate, sono colpite doppiamente perché possono difendersi meno dalla malattia e perché ricevono meno azioni di sostegno essenziali alla loro sopravvivenza.

COVID-19 sta colpendo in modo sproporzionato i Paesi più poveri, dal punto di vista sanitario e della sopravvivenza, ma soprattutto da quello sociale ed economico. Ad oggi UNDP stima che le perdite di reddito supereranno i 220 miliardi di dollari in questi paesi. i settori economici più duramente colpiti sono quelli con alte percentuali di lavoratori e lavoratrici occupati informalmente. Con il 55% della popolazione mondiale che non ha accesso ad alcun tipo di protezione sociale (Fig.1), queste perdite si ripercuoteranno sull’istruzione, sui diritti umani e, nei casi più gravi, sulla nutrizione. Secondo la Banca Mondiale quest’anno tra i 40 e i 60 milioni di persone potrebbero dover affrontare condizioni di estrema povertà, con l’Africa subsahariana più colpita, seguita dall’Asia meridionale.

Del resto, i fragili sistemi sanitari oggi non sono in grado di sopportare una crisi che potrebbe essere ulteriormente aggravata dal fatto che il 75% della popolazione che vive nei paesi più poveri non ha acqua e sapone (Tab.1). Achim Steiner, amministratore del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo ha recentemente affermato che “Per vaste zone del globo la pandemia lascerà profonde cicatrici. Senza il sostegno della comunità internazionale, rischiamo una massiccia inversione di tendenza dei guadagni ottenuti negli ultimi due decenni, e un’intera generazione perderà, se non la vita, diritti, opportunità e dignità” (UNDP). Se e quando la comunità internazionale più abbiente – comunque ammaccata dalla crisi – riuscirà a sostenere questi paesi è una scommessa su cui è difficile puntare.

Rifugiati e sfollati

Nel contesto di vulnerabilità generale alcune popolazioni sono più a rischio di altre. Fra queste si contano gli oltre 71 milioni di rifugiati e gli sfollati, per la stragrande maggioranza ospitati proprio in paesi a basso o medio reddito. Certamente fra le popolazioni più ai margini della società si trovano ad affrontare sfide e vulnerabilità che vanno ben oltre la malattia. Ad esempio, dal 9 aprile, quasi 900 mila Rohingya rifugiati nel distretto di Cox’s Bazar, in Bangladesh, vivono in completo isolamento imposto dal governo per fermare la diffusione del coronavirus. Dovrebbero mantenere la distanza sociale, ma lo spazio a disposizione non lo consente, l’acqua è ancora meno disponibile e le Organizzazioni non governative hanno ridotto la loro presenza e il loro supporto proprio a causa del virus. La mobilitazione nei campi profughi è molto intensa e spesso attivata dal basso: le comunità si sono organizzate per fornire informazioni e in non pochi casi e con mezzi di fortuna hanno cominciato a produrre sapone [UNHCR). Di certo si tratta di iniziative che hanno il pregio di rinsaldare relazioni e solidarietà, ma non possono bastare a ridurre i rischi. Come è stato detto dall’Alto commissario dell’UNHCR “Se anche un solo caso entra nei campi, la pandemia si propagherà in modo estremamente veloce proprio per le condizioni di vita di queste popolazioni”(UNHCR).

Anche se spinta da motivi molto diversi la popolazione che vive nelle baraccopoli del mondo – più di un miliardo di persone – è a rischio fondamentalmente per gli stessi motivi. I più grandi insediamenti informali del mondo in Brasile India, Nigeria, Kenya sono particolarmente vulnerabili e incubatori di malattia. Si tratta di aree sovraffollate e densamente popolate, prive di alloggi con adeguata ventilazione, infrastrutture sanitarie e servizi di base come acqua e servizi igienico-sanitari. Ancor più che nei campi profughi, in questi insediamenti le misure di prevenzione sono sostanzialmente inesistenti.

Bambini e bambine

La malattia colpisce anche i bambini e le bambine, al riparo dalla letalità, ma vittime delle conseguenze. Ad oggi un miliardo e seicento milioni di studenti e studentesse ha lasciato la scuola, ma se nei paesi come l’Italia la discussione è legittimamente orientata alla loro formazione e alla risoluzione di problematiche familiari, nei paesi più poveri la frequenza scolastica è molto più dell’acquisizione di competenze. Come Unicef e UNDP mettono bene in rilievo, la scuola – di per sé una sfida quotidiana per milioni di bambini e bambine ben prima dello scoppio dell’epidemia – era anche il luogo dove almeno una volta al giorno potevano godere di un pasto e di acqua pulita. L’assenza dalla scuola dunque va ben oltre il danno formativo. UNICEF ha recentemente riferito che in America Latina e nei Caraibi oltre 154 milioni di bambini sono temporaneamente senza scuola e di conseguenza oltre 85 milioni di bambini non possono avvalersi del programma alimentare scolastico. Nell’emergenza anche la loro sicurezza è a rischio perché, come altre crisi hanno dimostrato, casi di abbandono, abusi, violenze e matrimoni forzati e precoci, crescono all’aumentare delle fragilità familiari (UNDP; Unicef). Da questo punto di vista è prevedibile che il Covid possa portare con sé effetti indiretti negativi che nei contesti più poveri possono mettere seriamente a rischio il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo auspicabili per le giovani generazioni.

Le opportunità delle donne

Infine, sta prendendo forma anche l’entità dei danni nei confronti delle donne. Un rapporto recentemente pubblicato da UNFPA¹mette in luce i gravi effetti della crisi se questa perdurasse anche solo per un periodo circoscritto. In particolare risulterà difficile supportare adeguate azioni dei cosiddetti “tre pilastri”: la riduzione del bisogno non soddisfatto di contraccezione, il miglioramento della salute materna e l’eliminazione della violenza di genere includendo in questa le mutilazioni, i matrimoni precoci e la violenza domestica. Donne e ragazze infatti sono esposte a maggiori rischi di violenza da partner nelle relazioni intime a causa dell’aumento delle tensioni in famiglia, ma anche ad altre forme di violenza come lo sfruttamento sessuale in risposta alle minori risorse economiche delle famiglie. Come è avvenuto a seguito della diffusione dell’AIDS e in seguito dell’Ebola, anche il COVID sottrarrà risorse economiche e servizi essenziali ai programmi già avviati, spostando a una data al momento nemmeno ipotizzabile il raggiungimento dei traguardi previsti dall’Agenda 2030.

Non solo sud del mondo

Quanto sta succedendo alle popolazioni dei paesi più poveri non è paragonabile al disagio di quelle dell’emisfero nord. Tuttavia, il COVID 19 e le misure di contenimento del contagio nel nostro paese stanno avendo un forte impatto sulle persone ai margini dei paesi economicamente sviluppati. Fra questi l’esercito dei senza fissa dimora, la popolazione Rom che vive nei campi regolari o spontanei, i giostrai Sinti, i circensi, e il mondo confinato nei centri di accoglienza delle persone sospese dalla vita, in attesa di essere rimpatriate o accolte. Per alcuni gruppi il problema è principalmente quello della condivisione di spazi angusti e sovraffollati, vere polveriere di contagio che fanno il paio con una estrema fragilità personale. Chi non ha la fortuna di avere un ricovero per la notte vive in condizioni di promiscuità e in ambienti senza riscaldamento e aerazione, senza acqua corrente e servizi igienici. In queste condizioni le prescrizioni circa il lavaggio delle mani, degli indumenti e l’igienizzazione degli ambienti sono regole difficili se non si possono rispettare. Situazioni meno estreme non sono meno problematiche. I lavoratori e le lavoratrici irregolari o precarie che hanno perso il lavoro non usufruiscono delle misure di protezione e senza un reddito, per quanto modesto, trascinano i familiari nella spirale della povertà da cui è difficile uscire.

E infatti un’indagine condotta da Caritas Italiana nel mese di aprile rivela che le domande di aiuto rispetto al periodo pre-emergenza sono raddoppiate (quasi 39 mila “nuovi poveri”). In particolare le diocesi coinvolte² segnalano un aumento della domanda di beni e servizi materiali, principalmente cibo, e un aumento delle richieste di sussidi e aiuti economici per il pagamento di bollette e affitti. Il 70% delle persone segnala anche un incremento del disagio familiare, il 65% problemi per l’istruzione dei figli. Quasi tutti hanno chiesto aiuto a causa della perdita del lavoro (98%).

Negli Stati Uniti invece la vulnerabilità è associata alla questione razziale. Il recente rapporto di APM Research Lab³ dal titolo “Color of Coronavirus” fornisce evidenze nel divario nel tasso di mortalità di Covid tra i bianchi americani e gli altri. Il tasso di mortalità degli afro americani è pari a 50,3 ogni 100.000 persone contro il 20,7 dei bianchi, il 22,9 dei latino-americani e il 22,7 degli asiatici americani. A livello dei singoli Stati, alcune statistiche sono state definite scioccanti da APM: in Kansas i residenti neri muoiono a un tasso sette volte superiore a quello dei bianchi; a Washington, sei volte, in Michigan e Missouri cinque, e nei principali punti caldi della malattia – New York, Illinois e Louisiana – tre. Nel complesso i neri americani rappresentano il 13% della popolazione in tutte le aree degli Stati Uniti, ma hanno subito il 25% dei decessi accertati. Per molti studiosi di sanità pubblica, le ragioni delle disparità sono il frutto di disuguaglianze strutturali di lunga data. I neri americani svolgono principalmente lavori che non possono essere svolti in casa. Sono più poveri e hanno condizioni di salute più precarie determinate anche da un diverso accesso alla sanità e hanno una prevalenza più alta nelle condizioni che aumentano il rischio: il diabete, l’ipertensione, le malattie cardiovascolari.

In definitiva in questo paese – come nel resto del mondo – alla fine della pandemia si dovrà fare i conti con la crisi economica che ha provocato, ma anche con quella sociale che potrà vanificare gli sforzi profusi dalle istituzioni, dalle organizzazioni del privato sociale e non governative a beneficio dei gruppi più vulnerabili che popolano il nostro pianeta.

Per saperne di più

APM REsearch LAB

Caritas italiana

Fio.PSD

ILO.ORG

Tawney, R. H., (1933), Land and Labour in China in The economic Journal, 43-170

The Guardian

UNDP 

www.reuters.com

UNHCR

WHO

World Bank, World Development indicator

Note

¹ Lo studio è stato condotto con con Avenir Health, Johns Hopkins University e Victoria University Austalia.

² L’indagine ha coinvolto 111 delle 150 diocesi

³ Dati forniti da 39 dei 50 stati, per l’88% delle morti accertate si conosce la razza.

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