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Il Grande Guardiano d’Europa

La migrazione e lo status dei 4 milioni di profughi siriani è stato argomento centrale della recentissima campagna elettorale conclusa con la rielezione di Erdogan, le cui posizioni sull’argomento sono state assai meno estreme rispetto a quelle del rivale Kiliçdaroglu. Ne parla Massimo Livi Bacci che pone in rilievo le grandi difficoltà che si frappongono al rientro dei profughi in Siria, e i limiti dell’accordo tra UE e Turchia.

La vittoria di Erdogan, sia pure di stretta misura, sul rivale Kiliçdaroglu nel ballottaggio dello scorso 29 maggio è stata rapidamente archiviata dall’opinione pubblica, avida di novità quanto veloce nel metabolizzarle. Eppure la Turchia, membro della Nato, è un paese cruciale negli equilibri dell’oriente europeo e del medio oriente, sconvolti dall’aggressione della Russia all’Ucraina, dalla guerra civile in Siria, e dai conflitti e le tensioni che percorrono la regione. In Turchia vivono 4 milioni di profughi e rifugiati – quasi tutti siriani – in un regime di protezione temporanea (3,6 milioni) o come rifugiati e richiedenti asilo (0,4 milioni). La questione della sorte di questi milioni di donne e uomini ha avuto larga parte nel lungo dibattito elettorale, e resta un grave e irrisolto problema per Erdogan. Ma anche per l’Europa, perché Erdogan ha avuto una sorta di investitura da parte della Unione Europea come Grande Guardiano e gestore della diga che protegge il nostro continente dal disordinato afflusso di masse in fuga.

Profughi e campagna elettorale

La questione profughi ha animato la campagna elettorale. L’opinione pubblica occidentale, e quella italiana, era generalmente a favore di una vittoria del leader dell’opposizione Kiliçdaroglu, alla testa di una coalizione molto eterogenea, che si proponeva di far tornare la Turchia nell’alveo della democrazia parlamentare, ristabilendo l’indipendenza della magistratura e di altre istituzioni, ritornando al pieno rispetto dei diritti e delle garanzie individuali. I profughi siriani sarebbero però stati meno entusiasti di un’ eventuale vittoria di Kiliçdaroglu, che nell’ultima parte della campagna elettorale aveva sostenuto posizioni estreme, fino a denunciare la presenza in Turchia di 10 milioni di stranieri, descritti come “macchine del crimine, minacce per la sicurezza nazionale”, promettendo di rimandare in patria tutti i siriani entro due anni1. Dichiarazioni assai difficili da mettere in pratica, ma tali da allarmare la collettività dei rifugiati. Erdogan aveva mantenuto una linea meno aggressiva, pur reiterando il proposito di sostenere il “rimpatrio volontario” di un milione di profughi. Aveva anche dichiarato “essi [I profughi] non saranno mai espulsi da questa terra. Le nostre porte sono aperte. Continueremo a ospitarli e non li getteremo in braccia agli assassini [Assad]”2. Ma come convincere i profughi a rientrare “volontariamente” nel loro paese, governato da “assassini” e per di più ancora formalmente in guerra? 

La diga antiprofughi ha sette anni di vita

Il patto tra Unione Europea e Turchia del 2016 è un caso emblematico dell’intreccio tra migrazione e rapporti tra Stati. Nel 2014 e 2015, la guerra civile in Siria sospinge milioni di profughi fuori del paese, verso gli stati confinanti, ma anche verso il cuore dell’Europa, attraverso la Grecia e per la rotta Balcanica. La Turchia apre la porta ai profughi, contando anche sulla brevità del conflitto. Nel 2015, più di un milione di rifugiati – che oltre ai siriani annoveravano Iracheni, Afghani, Pakistani e altre nazionalità – entrano in Europa, 900mila attraverso la Grecia. La UE è disunita, la gestione di questo tipo di emergenze è stata responsabilità, fino ad allora, dei singoli Stati senza alcun coordinamento. Non esistono meccanismi solidaristici di riparto dei profughi nel territorio europeo. La Germania, con un atto di coraggiosa apertura, accoglie più di un milione di profughi, disponendo forti investimenti destinati alla loro integrazione. Nel marzo del 2016 è suggellato un patto con la Turchia che accetta di chiudere le porte di uscita ai rifugiati che ha accolto, garantendo il rispetto dei loro diritti basilari. L’accordo prevedeva anche la cancellazione dei visti per i cittadini Turchi in viaggio per l’Europa, ma sono poi sorte controversie che l’hanno impantanato. In cambio la UE s’impegnò a erogare un contributo di 6 miliardi di Euro in cinque anni, attraverso la EU Facility for Refugees in Turkey (FRIT), destinati a fornire assistenza umanitaria, istruzione, salute, infrastrutture locali e sostegno socioeconomico ai rifugiati. Il FRIT è stato finanziato con altri 3 miliardi alla fne del 2021, più 1 miliardo addizionale in un nuovo EU Trust Fund. Sono in corso trattative per il prolungamento dell’accordo. In sostanza: la UE delega alla Turchia la funzione dell’accoglienza dei profughi, dietro pagamento di un significativo prezzo e, in pratica, esternalizza i propri confini. Sotto il profilo meramente quantitativo, l’accordo ha funzionato, sbarrando la strada ai flussi che transitano per la Turchia, ridotti dal milione del 2015 a poche decine di migliaia. Per altri aspetti, l’accordo presenta numerose debolezze, sul piano del rispetto dei diritti umani, della qualità dell’accoglienza, e degli effetti di lungo periodo che la presenza di quasi quattro milioni di rifugiati ha sull’equilibrio del paese ospitante. Soprattutto a causa del modesto flusso di rientri in Siria, dove la situazione è lontana da essere “normalizzata”. Sotto il profilo dei rapporti con l’Unione Europea, è evidente che la Turchia possiede una forte arma di pressione, se non vogliamo usare il termine “ricatto”, sconveniente per qualificare i rapporti tra paesi alleati. Dovesse venire meno la funzione di diga, che la Turchia ha assunto, si creerebbe rapidamente una situazione di crisi simile a quella del 2015, in un’Europa ancora profondamente divisa sulle politiche migratorie. Se ne è avuta una prova all’inizio del 2020, quando sono sorte controversie tra Turchia e UE in merito, tra l’altro, ai trasferimenti finanziari. A migliaia di profughi venne consentito di ammassarsi al confine con la Grecia, del quale venne minacciata la riapertura. La crisi fu allora rapidamente sanata, il patto è stato rinnovato ma resta la sua genetica debolezza.

Tornare in patria?

Quasi tutti i profughi intendono tornare in patria, e sperano di poterlo fare, prima o poi. Gli esempi che ci offre la storia sono innumerevoli, anche relativamente recenti. Ma il desiderio spesso non si traduce in realtà e più passa il tempo, meno probabile è il rientro. È indicativo il fatto che tra il 2016 e lo scorso mese, la UNHCR abbia contabilizzato il rientro in patria di soli 362mila rifugiati (rientrati in modalità autonoma, Figura 1) tra i tanti milioni (circa 6 nel 2023) che oggi vivono fuori della Siria.  All’inizio del 2023, la UNHCR ha eseguito una indagine campionaria (la settima) sui quasi 2 milioni di profughi siriani in Libano, Giordania, Egitto e Iraq3. L’indagine non copre la Turchia, ma i risultati senza dubbio rispecchiano un sentimento e atteggiamento comune, che è molto pessimista. Ben il 94% degli intervistati ha dichiarato di non avere in programma di rientrare in Siria nei successivi 12 mesi; il 51% ritiene di non rientrare nemmeno entro 5 anni (il 24% è invece affermativo, e il 25% non sa). Alla domanda generica circa l’intenzione di rientrare, senza limiti di tempo, il 56% è affermativo. Rispetto alle indagini passate, i profughi esprimono opinioni più pessimiste, e sono in crescita coloro che vorrebbero riemigrare in un paese terzo. Indicatori vari, per quanto riguarda i profughi in Turchia, vanno nella stessa direzione. La volontà di Erdogan di rimpatriare (volontariamente) un milione di persone cozza contro il fatto che il rimpatrio avverrebbe nei territori del nord della Siria, occupati dalle truppe turche, in condizioni di grave insicurezza, e senza prospettive di una pace duratura. Nonostante le difficili condizioni di vita, i siriani lentamente si adattano alla società turca, i bambini frequentano le scuole, gli adulti si inseriscono faticosamente nel mercato del lavoro, non pochi (200mila secondo le dichiarazioni ufficiali) hanno ottenuto la cittadinanza. Tuttavia, anche in ragione delle gravi difficoltà economiche del paese, è andata crescendo l’ostilità della popolazione verso i profughi, soprattutto nelle aree nelle quali maggiore è la loro presenza (Figura 2).

E se si rompe la diga? 

Se si rompe la diga, o se il Grande Guardiano la svuota in fretta, il disordinato flusso di massa si dirigerà, come nel 2015, verso l’Europa.

Che ha fatto qualche passo avanti, sulla base dell’esperienza dell’accoglienza dei profughi ucraini. Ma che non ne ha fatto nessuno per quanto riguarda la costruzione di una politica migratoria solidale, non condizionata dalle emergenze.   

Note

1 Tuba Altunkaya, What will happen to Turkey’s EU migrant deal if the opposition wins the election? (euronews.com), maggio 2023. 

2 Ibidem

3 UNHCR, Syrian Refugees’ Perceptions and Intentions on Return to Syria, Maggio 2023

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