È probabile che nei prossimi anni riprendano con vigore consistenti flussi immigratori verso l’Italia. Gianpiero Dalla Zuanna mostra come siano infondati i timori di snaturamento dell’identità nazionale conseguente all’arrivo in gran numero di persone che vengono da lontano.
Da più parti in Italia viene chiesta al Governo una maggior apertura all’arrivo di nuovi lavoratori stranieri, vista la drammatica carenza di manodopera un po’ in tutti i settori, dell’industria e del terziario, specialmente per quanto riguarda i lavori che l’Istat definisce “a basso livello di competenze”. Le previsioni di Eurostat suggeriscono che nei prossimi vent’anni, per impedire un calo cospicuo delle persone in età di lavoro, l’Italia avrà saldi migratori attorno a +200 mila l’anno, vicini a quelli realizzatesi nel primo decennio del XXI secolo1. Se queste previsioni si realizzeranno, fra vent’anni in Italia vivranno più di dieci milioni di persone straniere o di origine straniera, poco meno di un residente su cinque, il doppio rispetto a oggi. Questi numeri possono incutere timore. Come potrà l’Italia mantenere una sua identità? E immigrazioni così sostenute non rischiano di mettere in pericolo la coesione sociale? L’evocazione di queste paure è alla base di un libro pubblicato qualche anno fa, che è utile riprendere per ragionare sull’Italia (e sull’Europa) di oggi.
Un teoria sbagliata
L’impianto teorico de Le grand remplecement di Renaud Camus2 è basato su un concetto errato, ossia che gli immigrati – generazione dopo generazione – restino impenetrabili rispetto ai modi di pensare del luogo di arrivo. Quando l’atteggiamento degli autoctoni è ostile, può accadere che i migranti si autodifendano, creando comunità chiuse. Tuttavia, quasi sempre i meccanismi socio-demografici prevalenti sono altri, per due motivi. Il primo è che migrazione è selezione: le persone che migrano sono diverse da quelle che restano a casa, e la principale fonte di diversità è proprio il desiderio di cambiare il modo di vivere, gli atteggiamenti e gli stili di vita. Non è solo ansia di benessere e di consumo, ma anche desiderio di libertà e di novità. Il secondo, connesso al primo, è che questa selezione agisce come acceleratore di assimilazione, intesa – letteralmente e senza accezione negativa – come volontà di diventare simili alle persone e alle famiglie del paese ospitante. Le grandi migrazioni degli ultimi due secoli verso i paesi e le aree più ricche e industrializzate sono state una poderosa spinta alla modernizzazione per milioni di persone provenienti da regioni e paesi economicamente arretrati.
Partendo da questi due presupposti possiamo capire perché, anche in Italia, i prolungati fenomeni di replacement migration non abbiano snaturato, ma abbiano arricchito la popolazione autoctona. Torino, Milano e Roma sono certamente diverse da quelle di ieri, ma i loro abitanti si sentono torinesi, milanesi e romani, anche se i genitori o i nonni di buona parte di loro è nata in lontani luoghi d’Italia e del mondo.
Guardiamo al vecchio Triangolo Industriale. Con le prime avvisaglie di sviluppo, le aree urbane di Piemonte, Liguria e Lombardia iniziarono a calamitare flussi consistenti di popolazione, negli stessi decenni in cui la fecondità iniziava la sua corsa al ribasso. La «fame di lavoratori» venne saziata dall’immigrazione. Già nel 1881 il 52% delle persone residenti a Milano erano nate altrove. Nei decenni successivi l’urbanizzazione continuò, non arrestandosi neppure davanti alle leggi fasciste che cercavano di impedire l’esodo dalle aree rurali. Nel secondo dopoguerra, le immigrazioni verso il Triangolo Industriale ripresero con forza, da tutte le altre regioni d’Italia. Dopo la pausa migratoria degli anni Settanta e Ottanta del Novecento, anche se si affacciavano al lavoro i numerosi figli del baby boom, la richiesta di braccia riprese, perché l’Italia si specializzò in settori industriali ad alta intensità di lavoro e per la grande crescita del terziario.
L’intreccio fra bassa fecondità, mobilità sociale e immigrazioni
Per meglio comprendere un’attrazione immigratoria così vasta e prolungata, le motivazioni economiche non sono però sufficienti. È necessario allargare la visuale, guardando anche alle strategie familiari e di mobilità sociale di autoctoni e immigrati3. C’è stata un’interazione ciclica fra bassa fecondità, mobilità sociale, migrazioni. Le coppie autoctone, quando riducono la fecondità, possono garantire ai pochi figli migliori chance di mobilità sociale ascendente, perché hanno più risorse da investire nell’istruzione. Questi pochi figli diplomati e laureati accedono ai lavori più prestigiosi e meglio pagati, mentre la “base” della piramide sociale viene occupata da immigrati. Poiché anche questi ultimi si comportano come gli autoctoni, riducendo la fecondità e facendo studiare i loro figli, nella generazione successiva la carenza di forza lavoro unskilled si riproduce, e arrivano nuovi immigrati, in un processo che si autoalimenta e diventa ciclico, che in città come Milano e Torino (ma anche Monaco, New York, Londra e Parigi) va avanti da almeno 150 anni.
Questo schema si adatta molto bene al Nord Ovest d’Italia (ma anche alla Germania e agli USA). Nel secondo dopoguerra, gli immigrati provenienti dalle regioni del Nord Est e dal Centro-Sud sono andati a fare i lavori unskilled. Essi hanno abbandonato rapidamente la natalità del luogo di provenienza. Nella seconda metà del Novecento, quando entrambi i coniugi sono nati al Sud e risiedono nel Nord Ovest, la loro fecondità è stata del 30-40% inferiore rispetto a quella dei coetanei rimasti al Sud. Anche gli stranieri stabilmente presenti in Italia occupano oggi in grandissima parte i gradini più bassi della stratificazione sociale, svolgendo per lo più i lavori meno prestigiosi, più faticosi e peggio retribuiti. Una volta giunti in Italia, essi adottano rapidamente le strategie di mobilità sociale ascendente del nuovo contesto. Anche quanti provengono da paesi ad alta fecondità hanno un numero di figli inferiore rispetto ai loro coetanei rimasti in patria. Anche per gli immigrati la bassa fecondità accelera la mobilità ascendente dei figli, i quali cercano di far fruttare al meglio i loro titoli di studio, per evitare i lavori dei loro genitori.
Quindi, la carenza di forza lavoro unskilled – la molla che ha attratto persone povere verso le ricche regioni del Triangolo Industriale (nei primi decenni del dopoguerra), verso tutto il Centro Nord (a partire da fine anni Ottanta del Novecento) e in misura minore verso il Mezzogiorno – è stata fortemente accresciuta anche dal forte investimento delle coppie (sia autoctone sia immigrate) sulla “qualità” dei loro figli. Vedendo le cose da un altro punto di vista, il Centro e Nord Italia negli ultimi quarant’anni ha potuto “permettersi” una fecondità così bassa e figli di così alta “qualità” senza che la popolazione e il sistema economico collassassero, proprio grazie alla disponibilità praticamente illimitata di nuovi immigrati disposti a fare i lavori indispensabili, ma che gli autoctoni potevano permettersi di evitare. Anche perché è sbagliato immaginare che nelle società post-moderne il lavoro manuale tria scomparendo. Al contrario, oggi nel Nord Italia il numero di persone che fa lavori definiti dall’Istat “a basso livello di competenze” è superiore a vent’anni fa.I dati suggeriscono che, oggi come nei prossimi anni, la grande carenza di lavoratori unskilled in Italia e nei paesi ricchi potrà essere coperta solo da persone che arrivano da lontano. Ma la paura del grand remplecement è infondata, perché basata su presupposti ideologici che non trovano fondamento nella realtà. La grandissima parte dei nuovi immigrati diventeranno nuovi cittadini, poco diversi dai loro coetanei autoctoni, e per le seconde generazioni – se potranno studiare e accedere a buoni lavori – questa assimilazione sarà completa. Il motore segreto di questa integrazione sarà una potente volontà, comune a immigrati e autoctoni, di garantire ai (pochi) figli un futuro migliore. Adoperiamoci – piuttosto – per favorire ed accelerare questi spontanei processi di integrazione.
*Questo articolo riprende quello uscito su “la Lettura” del Corriere della Sera di domenica 29 maggio 2022
Note
1Eurostat (2020) Population projections in the EU
2Renaud Camus, Le Grand Remplacement, Neuilly-sur-Seine, éd. David Reinharc, 2011
3Per una trattazione più estesa vedi Gianpiero dalla Zuanna: “Population replacement, social mobility and development in Italy in the twentieth century”, Journal of Modern Italian Studies, 11, 2, 188-208, 2006.