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La demografia e il cambiamento climatico

Il prossimo settembre, l’IPCC, organizzazione delle NU che analizza il cambio climatico, presenterà il suo VI Rapporto di sintesi. Questo ribadirà quanto emerge dagli studi parziali già resi pubblici: è l’attività umana la causa del riscaldamento del pianeta. Purtroppo, come osserva Massimo Livi Bacci, gli eventi politici internazionali rischiano di frenare o annullare le azioni necessarie per accelerare la transizione energetica, la vera medicina per frenare il cambio.

Nella sua più che secolare storia, argomento centrale della demografia è stato lo studio dei fattori e delle conseguenze sociali e economiche delle dinamiche di popolazione. Assai minore attenzione è stata data alle interazioni tra popolazione, ambiente e natura, forse per la crescita relativamente lenta della prima, o anche perché il pianeta appariva straordinariamente esteso, con vasti spazi da esplorare e da “conquistare”. Non diversamente, la natura – se non nemica o “matrigna” – doveva essere addomesticata e sottomessa. I decenni scorsi si sono incaricati di spazzare via le antiche convinzioni: la popolazione ha accelerato in modo straordinario la sua crescita e aumentato la sua voracità di risorse, e gli effetti negative sull’ambiente sono diventati percepibili. Alla demografia si aprono nuovi spazi di indagine oltre a quello tradizionale – e ben esplorato –  dello studio dei fattori della crescita demografica, che è una forza fondamentale del cambiamento climatico. I temi dello sviluppo demografico futuro, dell’immigrazione in aree essenziali per gli equilibri ambientali, dell’intrusione nelle aree fragile, delle relazioni tra desertificazione e migrazioni  e tra cambio climatico, alimentazione e salute, la crescita delle grandi megalopolis, richiedono tutti sofisticate analisi che non possono prescidere dalle conocenze demografiche. 

Il cambio climatico e il VI Assessment Report dell’IPCC

Nel prossimo mese di settembre, l’IPCC (International Panel on Climate Change) sostenuto dalle Nazioni Unite) pubblicherà la sintesi finale del VI Assessment Report sul cambio climatico (il precedente rapporto venne pubblicato nel 2014), che farà il punto sui risultati dell’intensissima attività di ricerca sul tema svolta da legioni di scienziati, con l’ausilio di metodologie e di strumenti di analisi sempre più sofisticati1. E’ da presumere che la sintesi finale non farà che confermare quanto l’IPCC ha già reso noto nei rapporti finali dei suoi tre Working Group2, ma sicuramente contribuirà a dare maggiori prove dell’urgenza di potenziare le azioni per contrastare il riscaldamento globale e per moderarne gli effetti negativi. 

Le analisi mostrano oramai, senza ombra di dubbio, che è all’intensificazione delle attività umane – e all’aumento delle emissioni di gas serra – che va attribuito l’aumento di oltre un grado della temperatura del pianeta rispetto a un secolo fa (Figura 1); inoltre in assenza di decisi correttivi, passata la metà del secolo l’aumento toccherà un grado e mezzo, e due-tre decenni dopo addirittura due gradi. Il riscaldamento implica l’estensione dei processi di desertificazione, l’intensificazione dei fenomeni climatici estremi, l’aumento del livelli dei mari, e altre conseguenze negative. La “mitigazione”, o attenuazione, di questi processi è possibile, ma implica difficili accordi internazionali e coerenti politiche dei paesi, oltre a investimenti stratosferici per la “transizione energetica”, che implica l’uscita dai combustibili fossili e lo sviluppo di tecnologie per la cattura di gas nocivi nell’atmosfera. “Limitare il riscaldamento globale a 1,5°C implica che l’emissione dei gas serra raggiunga il suo massimo nel 2025 al più tardi, e si riduca del 43% nel 2030; nel contempo anche le emissioni di metano debbono ridursi di un terzo. Ma anche se si riesce a far questo, è inevitabile che si debba eccedere il limite del grado e mezzo in più, almeno temporaneamente, prima di scendere sotto  questo tetto verso la fine del secolo”3. Nelle sue conclusion, il rapporto del WGIII afferma che con le “giuste politiche, infrastrutture e tecnologie [oggi esistenti] è possibile operare un cambio nei nostri stili di vita e comportamenti tale da permettere una riduzione tra il 40 e il 70% delle emission di gas serra entro il 2050”. E anche una diversa organizzazione della vita urbana può rendere possibili forti riduzione delle emissioni a mezzo, tra l’altro “della elettrificazione dei trasporti in combinazione con fonti di energia a basse emissioni”. L’industria, cui è imputabile un quarto delle emissioni globali, dovrà fare la sua parte, “utilizzando più efficientemente le materie prime, riciclando e minimizzando gli sprechi”. Infine, l’agricoltura e il settore forestale “possono ottenere forti riduzioni delle emissioni, e rimuovere o immagazzinare proporzionali quote di anidride carbonica”. Insomma, ridurre le emissioni e frenare il riscaldamento è possibile, ma occorrono azioni incisive in tutti i settori delle attività umane, con profonde implicazioni sociali, economiche e politiche. 

L’Italia fragile

L’Italia, come tutta la regione mediterranea, ha numerose fragilità ambientali che il riscaldamento globale rischia di aggravare in assenza di adeguati interventi. Le fasce costiere sono fortemente insediate e minacciate, negli spazi più fragili – non solo Venezia – dalla crescita del livello marino. L’intensificarsi, già in atto, di eventi climatici eccezionali determina nuovi rischi per la sicurezza delle persone, delle abitazioni e di alcune infrastrutture – il pensiero va a Firenze e a Genova. Molte aree interne del Mezzogiorno soffriranno processi di inaridimento e desertificazione, con danni per l’agricoltura, anche se compensati dall’allungamento della stagione vegetativa nel nord del paese. 

I buoni principi contenuti nel PNRR circa gli interventi per accelerare la transizione energetica  sono posti in pericolo dalle vicende politiche internazionali. La priorità, per l’Europa e ancor più per l’Italia, è quella di sottrarsi alla dipendenza energetica della Russia, con una spinta più forte alle rinnovabili – il che è un bene – ma anche con un ritorno all’utilizzo del carbone – il che è un male. Inoltre nel nostro paese esistono forti divisioni ideologiche e frammentati ma combattivi interessi particolari, che inceppano i complessi meccanismi decisionali, impedendo o rallentando decisioni che dovrebbero essere sollecite. Famose personalità della cultura manifestano preoccupazioni circa l’accelerazione del ricorso alle energie alternative, temendo un degrado del nostro prezioso patrimonio paesaggistico per il moltiplicarsi delle pale eoliche e dei pannelli solari. Senza riflettere che con meno energia disponibile da queste fonti, si dovranno convertire a carbone le centrali, consumare più petrolio, aumentare l’inquinamento, nemico giurato dell’integrità del patrimonio artistico-storico. 

Occorre, però essere ottimisti: e qualche speranza ci viene dalla Figura 2 che riporta la % di italiani con oltre 14 anni, preoccupati per il cambiamento climatico e per l’effetto serra. Tale percentuale è stata in sensibile aumento tra il 2014 e il 2019, in tutte le classi di età, salvo ad avere una battuta d’arresto nel 2020 e una riduzione nel 2021. Gli ottimisti sperano che questa riduzione sia dovuta al contemporaneo emergere  della più viva, e imminente, preoccupazione per la pandemia e non al venir meno dell’interesse per l’ambiente: speriamo che sia così!

 

note

1I precedenti Rapporti di sintesi sono stati pubblicati nel 1990, 1995, 2001, 2007, 2014.

2  L’ultimo ciclo di lavoro dell’IPCC, si articola nelle complesse analisi di 3 Working Group (WG), il primo dei quali, WGI, ha trattato delle basi fisiche del RG (riscaldamento globale); lo WGII riguarda l’impatto del RG, la vulnerabilità e l’adattabilità della società; lo WGIII riguarda i processi di mitigazione del RG. I rapport conclusive dei te gruppi sono stati pubblicati nell’agosto del 2021, e nel febbraio e aprile del 2022.Ben 278 autori di 65 paesi sono stati coinvolti nel rapporto conclusivo dello WGIII, e questo dà l’idea .

3 IPCC Panel on climate change 

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