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Piccole isole, grandi problemi

Essere uno stato e una piccola isola significa essere vulnerabile a un complesso di sfide – da quelle ambientali a quelle geopolitiche e sociali – che sono andate crescendo nel tempo. Steve Morgan ricorda come il riscaldamento globale, l’aumento per ora inarrestabile dei livelli dei mari e l’intensificarsi della frequenza e dell’intensità dei cicloni tropicali mettano a rischio le società e le economie delle piccole isole, minacciandone, in alcuni casi, la sparizione.

Delle piccole remote isole, negli oceani, abbiamo immagini da favola, echi dei dipinti di Gauguin a Tahiti, dei racconti di Stevenson nelle Samoa, o le platinate foto e pellicole di documentari, film, e propaganda turistica. Ma la sorte di quelle isole, remote, povere e fragile non è invidiabile. In occasione della Cop28, può essere istruttivo dare uno sguardo disincantato a questi luoghi esotici e difficili.

Isole-stato, piccole e fragili 

“Essere uno stato e una piccola isola, o un (piccolo) stato dalle basse coste, significa essere vulnerabile a un complesso di sfide – da quelle ambientali a quelle geopolitiche e sociali – che sono andate crescendo nel tempo. Molti dei membri della nostra associazione procedono su una corda tesa, cercando di sviluppare nuove energie e di conservare quelle che posseggono per riuscire a raggiungere l’obbiettivo, apparentemente fuori portata, dello sviluppo sostenibile”. Così, quasi con un’invocazione di aiuto, si annuncia l’AOSIS (Alliance of Small Islands States), una organizzazione internazionale di 39 piccoli stati (16 nei Caraibi, 14 nel Pacifico e 9 nell’Oceano Indiano e nei mari della Cina), associata alle Nazioni Unite, e con un peso non trascurabile nel consesso dei 193 stati membri delle Nazioni Unite1. Anche le Nazioni Unite hanno un Alto Rappresentante dei SIDS (Small Island Development States), formato da 39 stati (gli stessi membri dell’AOSIS) più 19 territori associati, un aggregato di oltre 70 milioni di abitanti2. Il problema più acuto, per questi paesi e territori, molti dei quali localizzati in regioni remote del globo, è senza dubbio quello climatico e ambientale, che li rende particolarmente vulnerabili sia ad eventi eccezionali improvvisi, sia alla lenta azione del riscaldamento globale e della crescita di livello degli oceani. “Gli uragani Harvey, Irma, Maria e Nate trasformarono la stagione dei cicloni del 2017 nella più letale e devastante di tutti i tempi, distruggendo le comunicazioni, le infrastrutture di energia e trasporto, le abitazioni, le strutture sanitarie e quelle scolastiche”3. Nel medio-lungo periodo è comunque la crescita del livello marino, associata all’intensificarsi di fenomeni climatici eccezionali, che costituisce la maggiore minaccia all’integrità e perfino alla sopravvivenza delle piccole isole. 

L’evidenza scientifica

L’ultimo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) non lascia dubbi circa il peggioramento della situazione ambientale dei SIDS durante gli ultimi decenni e circa il loro ulteriore degrado nei prossimi 30-40 anni.4 “La temperatura globale continuerà ad aumentare, anche qualora le emissioni di gas serra vengano radicalmente ridotte, aggravando la loro vulnerabilità, e la gravità dell’impatto dei multipli e interconnessi rischi propri delle piccole isole” (innalzamento dei livelli marini, erosione delle coste e riduzione della superficie emersa, impoverimento delle acque interne, distruzione delle barriere coralline, danni alla biodiversità). Second l’IPCC, il livello del mare è cresciuto al ritmo di 1,5mm all’anno durante il periodo 1900-1990, di 3,2mm tra il 1990 e il 2015, e di 3,6 negli ultimi anni. Verso la fine del secolo il livello potrebbe essere tra 40 e 80 centimetri più alto rispetto all’inizio. Si verificherà un’ulteriore intensificazione dei cicloni tropicali, già in aumento negli ultimi quarant’anni. Naturalmente, queste tendenze negative si aggraverebbero se il riscaldamento superasse quel limite di 1,5° gradi in più, rispetto all’epoca preindustriale, inserito nell’accordo raggiunto alla Cop21 di Parigi nel 2015 e che molti pensano che verrà sorpassato. Negli atolli e in altre piccole isole verrebbe compromessa l’abitabilità condannandole allo spopolamento. 

Gli esempi concreti delle minacce imposte dal cambiamento climatico sulle piccole isole sono innumerevoli. Tuvalu è lo stato più piccolo tra quelli che compongono le Nazioni Unite (13mila abitanti e 30 kmq). L’isola è in gran parte sott’acqua nelle ore dell’alta marea; molte migliaia di isolani sono già emigrati in Nuova Zelanda; il Ministro degli Esteri Simon Kofe ha registrato un videomessaggio per la Cop26 immerso nell’acqua (Fig. 2); è stata lanciata l’idea di trasformare Tuvalu in una sorta di nazione “digitale” di cittadini dispersi qualora l’isola sparisse. Un destino simile è quello di Kiribati e dei suoi numerosi atolli e isolotti (112mila abitanti e 810kmq), o delle Isole Marshall (53mila abitanti e 200kmq), di Samoa (54mila abitanti e 200 kmq), di molte delle 333 isole che formano la Repubblica Fiji (900mila abitanti). Delle 33 isole Solomon (650mila abitanti) censite nel 1947, ne rimangono 28. I giuristi si chiedono se possano costituire “stato” società che hanno perduto la loro base territoriale anche se un curioso esempio esiste, quello del Sovrano Ordine di Malta, riconosciuto da numerosi stati del mondo. Nei Caraibi è soprattutto la combinazione tra aumento del livello marino e maggiore intensità e frequenza degli uragani che minaccia gravemente l’incolumità e la vita delle popolazioni, le infrastrutture, le abitazioni, l’agricoltura — anche nelle isole più grandi. L’erosione delle spiagge, gli uragani e le tempeste tropicali incombono minacciosi sul futuro dei paradisi turistici come le Seychelles (114mila abitanti) e le Maldive (360mila). 

Vulnerabilità economica e sociale

I SIDS sono molto densamente popolati (361 abitanti per kmq), hanno un reddito medio molto basso, altissimi costi dell’energia, dipendono fortemente dalle importazioni, traggono un’alta quota del loro reddito dal turismo. Tranne alcuni, appartengono al “mondo meno sviluppato” (Figura 3). Il 26% della loro popolazione complessiva vive in aree la cui elevazione sul livello del mare è inferiore ai 5 metri; in alcuni casi (Maldive, Tuvalu, Marshall Islands, Kiribati) tutta la popolazione vive in simili aree. In balia degli effetti distruttivi di eventi metereologici eccezionali. La quota di prodotto nazionale derivante dal turismo supera la metà nelle Bahamas e nelle Maldive, il 60% nelle Seychelles, il 70% nelle Cook Islands, in Antigua e Barbuda. È stato stimato che ogni anno le tempeste tropicali distruggono tra l’1 e il 10% del prodotto lordo dei Sids.

La vulnerabilità economica va di pari passo con la vulnerabilità sociale, con la povertà delle popolazioni più esposte, con il deterioramento del patrimonio abitativo, con l’emigrazione e, alla lunga, con la perdita netta di popolazione nei contesti più piccoli. Il costo delle indispensabili politiche di adattamento è estremamente elevato e al di sopra della portata delle economie dei piccoli stati. Per quanto piccole e economicamente e politicamente poco rilevanti siano tante isole-stato, il loro abbandono è un segnale del pericolo che corrono ben più estese società con i piedi ben piantati nella terraferma…che ferma non sta!

Note

1 – AOSIS – Alliance of Small Island States. Non tutti questi stati, per la verità sono “small”, visto che si annoverano tra questi Cuba, Repubblica Dominicana, Haiti, Singapore e Jamaica, con una popolazione pari alla metà del totale di quella dell’insieme dei  SIDS, ma con alcuni comuni problemi ambientali.

2About Small Island Developing States | Office of the High Representative for the Least Developed Countries, Landlocked

3 –  Ibidem

4 – Si veda ICCP, Sixth Assessment Report, IMpacts, Adaptation and Vulnerability, Chapter15, Small Islands. Chapter 15: Small Islands | Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability (ipcc.ch)

Fonti figure

Fonte figura 1 – Sealevel.nasa.org

Fonte figura 3: UNDP, Development Indicators – UNDP SIDS Data Platform

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