Per gli studi universitari la modalità telematica era già una realtà in rapida crescita prima della diffusione del Covid-19. A partire da un recente volume Istat su “I sistemi territoriali degli studenti Universitari”, Mastro Cico ricostruisce il quadro della didattica universitaria a distanza prima dell’emergenza sanitaria e propone degli spunti di riflessione su come le misure imposte dalla pandemia potrebbero innescare ulteriori cambiamenti nella didattica universitaria.
Negli ultimi due anni si è molto discusso di didattica a distanza imposta in tutti i diversi gradi di studio – per periodi più o meno lunghi – dall’esigenza di limitare la diffusione del Covid-19. Nei percorsi universitari però lo studio a distanza non è una completa novità connessa esclusivamente all’emergenza pandemica. Le prime due Università telematiche italiane sono nate nel 2004, arrivando ad 11 nel giro di pochi anni. Il volume curato da Francesca Brait e Massimo Strozza “I sistemi territoriali degli studenti Universitari”, permette di scoprire qualcosa in più sul profilo di chi, già prima della pandemia sceglieva di studiare a distanza e fa riflettere su quali potrebbero essere gli scenari post-pandemici.
Studiare a distanza: non solo università telematiche
Le prime due università telematiche in Italia sono nate nel 2004. Oggi sono 11. Questi corsi hanno attratto nel tempo un numero via via crescente di studenti: dal 2013 al 2018 è più che raddoppiata la quota degli iscritti alle università che hanno scelto questa modalità di formazione: si passa dal 2,8 per cento dell’anno accademico 2012/13 al 6,1 per cento del 2017/18. I corsi universitari telematici non sono solo appannaggio delle Università telematiche, anche se lo sono prevalentemente. Più nel dettaglio, questo tipo di utenza era, prima dell’anno accademico 2017/18, in oltre il 90 per cento dei casi iscritta ad Università telematiche. La quota risulta però in calo a partire dall’anno 2015/16, quando le Università telematiche avevano raccolto il 96 per cento della domanda di corsi telematici e si attesta intorno all’87% nell’a.a. 2018/2019. Da notare come, negli anni successivi al 2015/16, l’offerta “telematica” si sia arricchita dei cosiddetti corsi in modalità mista che prevedono la erogazione con modalità telematica di una quota significativa delle attività formative, comunque non superiore ai due terzi. Il sistema quindi è oggi assai complesso e la nuova modalità sembra prendere piede velocemente arrivando a coinvolgere, nel 2017/18, 8.286 dei 103.496 iscritti ad una formazione (totalmente o a prevalenza) telematica (Tab. 1).
Chi sono gli studenti a distanza
Spesso gli studenti “telematici” sono stati descritti come “maturi, con tassi di occupazione e reddito più alti degli iscritti agli atenei non telematici anche a parità di età” (Istat, 2016); in sostanza venivano individuati come studenti non a tempo pieno, piuttosto come persone per le quali lo studio poteva rappresentare un arricchimento professionale e culturale, ma non l’attività principale. Nel tempo, in corrispondenza anche dell’evoluzione dell’offerta formativa, però le cose sono cambiate e l’università telematica non viene scelta più solo da chi vuole conciliare lavoro e studio. I dati più recenti riportati da Brait e Strozza mostrano un netto “ringiovanimento” degli studenti dei corsi telematici: l’età mediana, infatti, è andata rapidamente diminuendo passando dai 37 anni dell’anno accademico 2012/13 ai 30 anni del 2017/18. Dal punto di vista territoriale sono soprattutto i residenti nelle aree del Mezzogiorno a subire l’attrazione delle università telematiche, in particolare gli studenti siciliani (Fig. 1).
Internet contro lo spopolamento?
L’esperienza del COVID e della didattica a distanza obbligata si sono calate, per gli studenti universitari, in questo già articolato contesto. Sarà interessante vedere se, sia dal lato dell’offerta che della domanda, questa esperienza implicherà un crescente ricorso alla scelta di corsi telematici. Il lockdown ha costretto anche le università tradizionali e i loro docenti a cimentarsi con lezioni ed esami a distanza: una volta superata l’emergenza è possibile che questo upgrade tecnologico – con la possibilità per gli studenti, ad esempio, di fruizione delle lezioni in modalità asincrona – continui a produrre effetti, riducendo la distanza che prima separava i corsi tradizionali da quelli telematici.
Sicuramente la possibilità dello studio a distanza dal punto di vista individuale può comportare vantaggi (soprattutto in termini di costi) e svantaggi (soprattutto in termini di socializzazione e condivisione delle esperienze); è comunque evidente che lo studio a distanza può aprire la possibilità di un percorso universitario anche a chi non può sostenere economicamente il trasferimento in un’altra città. Più in generale può andare incontro alle esigenze di un più ampio numero di persone, contribuendo così ad incrementare la partecipazione dei giovani alla formazione universitaria e a innalzare il tasso di conseguimento dei titoli terziari che nel nostro Paese, come è noto, è molto più basso rispetto a quello di molti altri paesi europei. Da un punto di vista del territorio, inoltre, si deve riflettere che la didattica universitaria a distanza potrebbe – almeno in parte – contribuire ridurre l’esodo di giovani da alcune aree del Mezzogiorno e dai piccoli contesti territoriali verso le grandi città. È noto infatti che allo spostamento per gli studi universitari segue poi spesso un trasferimento di lunga durata – e talvolta permanente – dal Sud e dalle Isole verso le aree settentrionali e dai piccoli centri verso le grandi città. Tuttavia è evidente che, in mancanza di uno sviluppo dei territori in cui trovare un lavoro è particolarmente difficile, il solo poter studiare da casa non basterebbe a trattenere i giovani dall’emigrazione.