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Aborto e obiezione di coscienza in Italia. In viaggio per poter abortire.

Ogni anno migliaia di donne in Italia abortiscono lontano dal proprio luogo di residenza. Utilizzando i dati aggregati pubblicati dal Ministero della Salute e quelli sulle singole interruzioni di gravidanza disponibili in forma anonima presso l’Istat, Autorino, Mattioli e Mencarini ci mostrano un collegamento fra la distribuzione territoriale dei ginecologi obiettori e la mobilità delle donne che abortiscono

Il 22 maggio 1978 la Legge 194 introduceva nel sistema sanitario italiano l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), garantendo contestualmente al personale medico e ausiliario di poter essere esonerato dal servizio invocando l’obiezione di coscienza. L’obiezione di coscienza, pur essendo consentita anche in altri sistema legislativi, rimane in Italia un tema molto controverso per la pervasività del fenomeno. Nel 2016 era obiettore il 71% dei ginecologi e solo il 60% degli ospedali dotati di un reparto di ostetricia effettuava IVG, con una notevole eterogeneità a livello regionale (fig. 1): dal 18% di ginecologi obiettori in Valle d’Aosta al 97% in Molise. Il fenomeno è particolarmente diffuso al Sud, ma le percentuali sono alte in tutto il Paese.

Il Ministro della Salute sostiene che l’obiezione di coscienza non pregiudichi di per sé l’accesso all’IVG e che eventuali criticità in tal senso siano da attribuire all’organizzazione delle strutture sanitarie. Tuttavia appare legittimo chiedersi se una così alta diffusione dell’obiezione sia tale da limitare il diritto delle donne ad ottenere un aborto sicuro e gratuito in alcune aree del territorio italiano.

Tanto spesso dibattuta, la relazione fra obiezione di coscienza e aborto raramente è stata analizzata dal punto di vista quantitativo e con gli opportuni strumenti di analisi statistica.

Il collegamento fra l’obiezione di coscienza e gli aborti fuori regione

Nonostante il lungo declino del ricorso all’IVG, in Italia si effettuano ancora 85.000 aborti volontari l’anno.
Secondo gli ultimi dati disponibili relativi al 2016, l’Italia presenta un tasso di abortività di 6,5 IVG all’anno per mille donne in età riproduttiva¹, molto basso se confrontato con quello di altri Paesi sviluppati o con il 17 per mille registrato in Italia nel 1982, anno in cui il ricorso all’IVG fu massimo. Il dato nazionale nasconde, però, una certa variabilità a livello regionale: si va da 4,5 aborti per mille donne in Basilicata a 8,8 in Liguria (fig. 2).

Il tasso di abortività regionale, che conta le IVG in base alla regione dove avvengono, non è tuttavia il modo più accurato per misurare il ricorso all’aborto da parte della popolazione locale, perché non tiene conto del fatto che alcune donne possono recarsi ad ottenere un’IVG in un luogo diverso da quello dove risiedono. Solo nel 2016 hanno abortito fuori dalla propria regione di residenza più di 4000 donne (pari al 5% del totale delle IVG). Siamo partiti proprio da questo dato per cercare di capire se esiste una connessione fra obiezione di coscienza e accesso all’IVG.

La figura 3 mostra (in verde) quali sono le regioni che ricevono più donne in cerca di un aborto e quali invece (in rosso) quelle da cui partono più donne. Non è detto, però, che l’obiezione di coscienza sia all’origine di questi movimenti. Potrebbero esservi, infatti, altre ragioni per cui le donne scelgono di recarsi in altre regioni ad abortire, legate allo stigma sociale e alla ricerca di riservatezza, oppure alla miglior qualità o fama delle strutture sanitarie in altre regioni. Inoltre, alcune delle donne che ottengono un’IVG fuori dalla propria regione potrebbero in realtà essere già emigrate per motivi di studio o di lavoro, senza però aver cambiato formalmente luogo di residenza.

Per far luce su cosa spinga così tante donne ad abortire lontano dal proprio luogo di residenza, abbiamo analizzato i dati regionali per il periodo 2002-2016, ponendo in relazione una misura di mobilità territoriale delle donne che abortiscono (la differenza fra gli aborti ottenuti dalle donne residenti nella regione e quelli avvenuti nella regione) con la percentuale di ginecologi obiettori, ma controllando per altre caratteristiche regionali che avrebbero potuto contribuire a spiegare la mobilità per IVG: il livello di fecondità e la religiosità della popolazione, la presenza di donne straniere (per le quali il tasso di abortività è circa triplo rispetto a quello delle donne italiane) e le condizioni economiche e lavorative nelle regioni. Per tener conto del fatto che la mobilità per aborti potesse essere in parte connessa a una più generale mobilità ospedaliera, abbiamo inserito nel modello anche la percentuale di nascite che avvengono fuori regione. I risultati dell’analisi dimostrano che, tenendo conto di tutti i fattori sopra elencati, le regioni che registrano maggiori flussi in uscita di donne in cerca di un’IVG sono proprio quelle dove l’obiezione di coscienza è più diffusa. Inoltre, quando si analizza il tempo di attesa medio fra il rilascio, da parte del medico, del documento con cui si autorizza l’IVG e il vero e proprio intervento, osserviamo che nelle regioni con più obiettori i tempi di attesa tendono ad essere più lunghi.

Abbiamo poi approfondito l’analisi, studiando più di un milione di singoli casi di IVG fra il 2002 e il 2016², mettendo in relazione il luogo dove è avvenuta ciascuna IVG (dentro o fuori la regione di residenza della donna) non solo con l’obiezione di coscienza e gli altri fattori regionali, ma anche con le caratteristiche individuali delle donne che abortiscono, quali l’età, la condizione occupazionale, lo stato civile, la cittadinanza, il numero di figli, il ricorso pregresso all’IVG e l’urgenza dell’intervento stesso. I risultati di questa analisi confermano che la probabilità che una donna abortisca fuori dalla propria regione di residenza aumenta significativamente quanto maggiore è la diffusione dell’obiezione di coscienza nella regione stessa. Tale relazione permane anche considerando esclusivamente gli aborti che avvengono in una diversa regione e per di più in una provincia non confinante con quella di residenza, segnalando che la distanza percorsa per ottenere un’IVG sia spesso non trascurabile e che non possa essere spiegata semplicemente con la volontà di mantenere la riservatezza evitando l’ospedale locale.

Margini di azione?

I nostri risultati mostrano che l’obiezione di coscienza complica l’accesso all’IVG, imponendo tempi e distanze, e quindi costi maggiori alle donne in cerca di un aborto sicuro.

Di fronte alle altissime percentuali di obiettori tra gli operatori sanitari in Italia occorre indagarne le ragioni e i possibili rimedi. Il numero degli obiettori è addirittura cresciuto negli anni e in alcune regioni si avvicina alla totalità del personale, tanto da far ritenere che vi siano altre ragioni dietro il fenomeno oltre quelle legate alla religione e alla coscienza, tra le quali, ad esempio, la percezione che i non obiettori siano penalizzati professionalmente dovendo svolgere prevalentemente IVG. Per quanto la Legge 194 riconosca il diritto del personale sanitario ad astenersi dal praticare l’IVG per motivi di coscienza, ugualmente tutelato dovrebbe essere l’accesso all’IVG nelle strutture del servizio sanitario nazionale, laddove invece in molti ospedali tale prestazione non è garantita. Per assicurare un adeguato, ed eguale, accesso all’IVG in tutto il territorio italiano, potrebbe essere incentivata la non obiezione. Probabilmente basterebbe anche solo porre un limite al numero di interventi per operatore, al contempo prevedendo e incentivando, in ogni ospedale, o almeno per gli ospedali di una certa area geografica, un rapporto numerico ideale tra obiettori e non obiettori per riuscire a garantire il servizio.

articolo pubblicato anche su lavoce.info

Per approfondimenti

Autorino, F. Mattioli e L. Mencarini (2018), The Impact of Gynecologists’ Conscientious Objection on Access to Abortion in Italy, WP Dondena n. 119, Università Bocconi.

Note

¹ I dati riportati in questo articolo sono tratti dalla Relazione del Ministro della Salute sulla attuazione della Legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (Legge 194/78) e, dove non diversamente specificato, fanno riferimento all’anno 2016.

² I dati sono raccolti dall’Istat con la collaborazione delle strutture sanitarie, del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore di Sanità, e disponibili in forma anonima e per scopi di ricerca presso il laboratorio ADELE dell’Istat.

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