A poca distanza dalla pubblicazione dell’ultima revisione del World Population Prospects (che nel titolo porta la data del 2010, ma che è uscita in realtà nel maggio 2011; United Nation Department of Economic and Social Affair , di cui ha dato conto anche Neodemos (“Nazioni Unite: popolazione del mondo stazionaria alla fine del secolo”, Neodemos, 11/05/2011), ecco l’approfondimento sulla mortalità, nel World Mortality Report , anch’esso con una data ufficiale, il 2009, che non corrisponde a quella della sua effettiva messa in linea (2011).
Una pioggia di numeri
Veramente le UN offrono anche la “World Mortality 2011 (Wall Chart)”, e cioè un tabellone sintetico, formato poster, con gli ultimi indicatori per il mondo nel suo complesso e per ogni singola area e paese, ma il volume ha il vantaggio di proporre un testo di guida e di accompagnamento, che aiuta a orientarsi un po’ nella valanga di dati. Vediamo quali sono le indicazioni principali che ne emergono.
La prima, non è una sorpresa, è che si vive sempre più a lungo: nel 1950-55 la durata media della vita nel mondo era di 47 anni (sessi riuniti), ma oggi è di 68, e le previsioni (non qui, ma nel World Population Prospects) parlano di un possibile aumento fino a 76 anni nel 2050 e a 81 nel 2100.
La seconda è che le differenze tra paesi e tra aree geografiche si vanno attenuando. La differenza tra paesi più e meno sviluppati, in termini di durata della vita era di quasi 24 anni nel 1950, ma non arriva a 11 oggi, e pare destinata a attenuarsi ulteriormente in futuro. In effetti, anche i paesi più poveri (o Least Developed Countries) hanno fatto grandi progressi, sotto questo profilo, passando da 37 a 57 anni di durata media della vita: i ritardi da colmare sono ancora notevoli, ma non si può negare che i miglioramenti siano stati forti anche in queste aree.
Ancora più (favorevole) impressione desta poi il declino della mortalità infantile, e cioè la quota dei neonati che muore prima di aver festeggiato un anno di vita. Ebbene, dal 133 per mille degli anni ’50, il mondo è oggi sceso a 46‰. Certo, i paesi sviluppati, con il loro 6‰, mantengono un netto vantaggio su quelli in via di sviluppo (50‰), e ancor più su quelli sottosviluppati (80‰), ma la situazione è in rapido miglioramento dappertutto, e per il futuro appare ragionevole prevedere un proseguimento delle tendenze recentemente osservate (fig. 1).
Infine, può valere la pena soffermarsi sulle differenze per genere: le donne, si sa, vivono più a lungo degli uomini, e questa differenza è massima dove le condizioni di sopravvivenza sono migliori: tocca gli 8 anni in Europa, ma scende a poco più di 2 in Africa. Però, negli ultimi anni, il vantaggio femminile prima ha smesso di crescere e poi ha cominciato a ridursi: forse, come si suol dire, “la forbice si sta richiudendo”. Le cause del fenomeno non sono chiare, come del resto non lo erano quando si è osservato l’allargamento della forbice, ma poiché l’avvicinamento è dovuto non a un peggioramento della situazione femminile, bensì a un miglioramento di quella maschile, il messaggio che ne emerge è senz’altro positivo (fig. 2).
Tutto bene, quindi?
Ma, ovviamente, non tutto va bene. Le differenze geografiche, ad esempio, restano enormi: in Giappone si campa mediamente 83 anni, ma in Guinea-Bissau solo 48. E, più in generale, l’Africa subsahariana è ancora molto indietro sul fronte della sopravvivenza. Le cause sono molteplici, ma tra queste una delle più importanti è l’infezione da HIV/AIDS, che in quest’area affligge, si stima, circa 23 milioni di persone.
Il 1° dicembre di ogni anno si celebra la giornata mondiale dell’AIDS, in corrispondenza della quale, da 5 anni, esce il Progress report: Global HIV/AIDS response , a cura di WHO, UNICEF and UNAIDS.
In sintesi, la versione 2011 del rapporto evidenzia, da un lato, i grandi progressi degli ultimi dieci anni nella lotta all’HIV, ma, dall’altro, anche le forti disparità che ancora esistono, sia nel rischio di infezione sia nell’accesso ai farmaci e ai servizi salva-vita. Ad esempio, si stima che più della metà delle persone che hanno bisogno di terapia antiretrovirale (ART) nei paesi a basso e medio reddito non sia in grado di accedervi – anche perché molti di loro non sanno neppure di avere l’HIV.
I rischio infezione, poi, rimane alto tra le ragazze adolescenti (nel mondo, tra le persone di 15-24 anni colpite da HIV, il 64% sono donne), tra i tossicodipendenti che fanno uso di siringhe, tra gli uomini che hanno rapporti omosessuali, e, più in generale, tra i gruppi di popolazione marginalizzati, in tutte le aree del mondo; ad esempio, prostitute, carcerati e immigrati.
Però, non bisogna neanche nascondere i grandi progressi che si sono registrati in questi ultimi anni, su questo fronte. Ad esempio, oggi il 61% delle donne incinte in Africa orientale e meridionale si sottopone al test per l’HIV, e accede a servizi di consulenza: nel 2005, la percentuale era solo del 14%. Quasi la metà (48%) delle donne in gravidanza che ne hanno bisogno riceve oggi trattamenti che combattono efficacemente la trasmissione del virus da madre a figlio. La terapia ART, che non solo migliora la salute e il benessere delle persone infette, ma blocca anche l’ulteriore trasmissione del virus, è ora disponibile per quasi 7 milioni di persone in paesi a basso e medio reddito, e cioè per circa il 47% di coloro che ne avrebbero bisogno. Molta strada già percorsa, quindi – ma molta ancora ne resta da fare.
Per saperne di più
UN (2011) World Population Prospects. The 2010 Revision.
UN (2011) World Mortality Report.
WHO, UNICEF and UNAIDS (2011) Progress report 2011: Global HIV/AIDS response.