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L’integrazione ai tempi del contagio

L’epidemia di coronavirus, e il rafforzarsi di sentimenti e pratiche di solidarietà, potrebbe smussare la stigmatizzazione su base etnica nei confronti degli immigrati. I quali, come osserva Ferruccio Pastore, praticano attività lavorative molto esposte al rischio contagio. Mentre si chiede a tutti di restare a casa, centinaia di migliaia di lavoratrici domestiche straniere si recano nelle case degli Italiani per attività di cura e sostegno.

Se c’è un minimo risvolto positivo, nella crisi sanitaria che stiamo vivendo, è che forse ci può indurre a una maggiore riflessività, a dare meno per scontate alcune cose importanti. Tra queste, vi è la natura dei nostri legami, sia quelli personali, sia, più in generale, il legame sociale, l’integrazione della società nel suo complesso, e più in particolare delle minoranze di origine immigrata al suo interno.

Che effetto ha dunque l’emergenza sui rapporti tra nativi e immigrati? Che impatto ha la percezione di una grave minaccia comune: è inevitabile che essa esacerbi i pregiudizi e allarghi i solchi esistenti, come è regolarmente accaduto in passato? Oppure, al contrario, può contribuire a ridurli, rendendo evidenti le interdipendenze e la necessità della cooperazione?

Da questo punto di vista, i primi giorni dell’epidemia sono stati di pessimo auspicio. Tra aggressioni sinofobe e deliranti esternazioni, il timore che il dilagare del contagio potesse inasprire pulsioni razziste purtroppo già diffuse è apparso fondato. Col passare dei giorni, invece, il senso di coesione sembra essere aumentato. Oltre a una certa (tardiva) moderazione dei toni del dibattito politico, forse stanno dando frutti anche le campagne (non solo) simboliche di solidarietà promosse, per esempio, da alcune organizzazioni islamiche radicate nei territori più colpiti.

Prevenire o, se necessario, bloccare dinamiche di stigmatizzazione su base etnica è vitale. Non solo per un imperativo morale, ma anche per impedire l’instaurazione di pericolosi circoli viziosi, che la sociologia medica ha descritto in vari ambiti (per esempio, in quello psichiatrico). Nella figura, provo a sintetizzare tali dinamiche, evidenziandone i rischi per la salute dell’intera collettività.

Quand’anche una certa resistenza della società italiana alla tentazione dell’ethnic scapegoating fosse confermata, non è affatto escluso che l’emergenza in corso possa avere comunque un impatto particolarmente pesante sull’integrazione delle comunità di origine immigrata. Di fronte a crisi sistemiche, sono infatti quasi sempre gli strati sociali economicamente più svantaggiati – tra cui, in Italia, rientrano certamente gli immigrati, specialmente quelli provenienti da paesi extra-UE – coloro che soffrono di più. E’ andata così con la lunga crisi economica divampata nel 2008 che, come hanno dimostrato numerosi studi, ha rafforzato una tendenza già esistente alla “etnicizzazione della povertà”.

Le misure di lotta alla povertà adottate negli ultimi anni, e specialmente il Reddito di cittadinanza, con la sua impostazione intrinsecamente discriminatoria, non hanno certo contribuito a migliorare la situazione. Basti pensare che, a un anno dal varo, mentre gli stranieri extra-UE rappresentano circa un terzo delle persone in situazione di povertà assoluta, non sono che il 6% tra i percettori del Reddito.

E’ assai probabile che COVID-19 non farà che aggravare questo divario. L’impatto del virus è infatti assai maggiore proprio nella parte del territorio nazionale in cui la presenza immigrata è più massiccia (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte). In queste regioni, gli immigrati sono sovrappresentati nel settore informale e nelle tipologie contrattuali meno tutelate, cioè proprio quei lavori che, con ogni probabilità, saranno travolti per primi dalla recessione indotta dall’epidemia.

Il paradosso è che, nello stesso tempo, la rilevanza strategica del lavoro immigrato aumenta. Mentre si discute sull’opportunità di chiudere le fabbriche per salvaguardare la salute degli operai, è fuori discussione che l’agricoltura e la logistica – settori ad altissima intensità di manodopera migrante – debbano continuare a funzionare, per evitare che l’epidemia inneschi una carestia.

Va menzionato, infine, il delicatissimo nodo del lavoro di cura: mentre chiediamo a tutti gli italiani di “restare a casa”, continuiamo ad aspettarci che centinaia di migliaia di lavoratrici straniere si rechino nelle nostre case, per assolvere ai nostri bisogni.

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