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Due proposte sulle pensioni

La legge italiana prevede che l’età al pensionamento si innalzi se aumenta la speranza di vita a 65 anni. Gianpiero Dalla Zuanna formula due proposte che – senza pesare sugli attuali lavoratori e sulle generazioni future – rendano più sopportabile questo meccanismo, inevitabile per garantire la sostenibilità del sistema previdenziale italiano. 

Il sistema pensionistico italiano si sta avviando verso un meccanismo completamente a contribuzione, dove il calcolo dell’assegno mensile sarà legato solo all’età al pensionamento e alla quantità di contributi versati. Si tratterà comunque di un sistema solidaristico, sia verticale (fra generazioni) che orizzontale (all’interno di ogni generazione). Verticale, perché le pensioni verranno pagate grazie ai contributi degli attuali lavoratori; orizzontale, perché – a parte la reversibilità per il coniuge o il compagno di una unione civile – gli eredi di chi muore poco dopo essere andato in pensione non avranno alcun diritto alla “restituzione” dei contributi versati dal defunto, che verranno utilizzati per garantire a chi sopravvive fino a tarda età il diritto all’assegno pensionistico. Quando questo sistema sarà pienamente operativo, l’età al pensionamento non sarà poi così importante per garantire l’equilibrio, perché l’entità della pensione risulterà legata solo alla quantità dei contributi versati e agli anni che mediamente ancora rimangono da vivere.

Tuttavia, oggi le cose vanno in modo diverso, perché il sistema è di tipo misto: una parte – decrescente negli anni ma a tutt’oggi consistente – delle nuove pensioni è calcolata con il sistema retributivo, basato non sui contributi versati, ma sull’entità della retribuzione degli ultimi anni di lavoro. Anche per questo motivo l’equilibrio del sistema è garantito da regole abbastanza rigide, come l’età minima per ottenere la pensione di vecchiaia e il numero minimo di anni di contributi versati per ottenere la pensione di anzianità. Queste soglie minime vengono determinate in base alla speranza di vita a 65 anni: quando questa cresce, le soglie vengono spostate in avanti, quando diminuisce, le soglie non vengono toccate per un periodo proporzionale alla diminuzione.

L’arretramento del 2020-21 dovuto al Covid, ha fatto sì che anche negli anni di recupero immediatamente successivi le soglie pensionistiche non venissero toccate. Poi però l’incremento è continuato, e oggi l’attesa di vita a 65 anni è superiore rispetto a quella del 2019, anno precedente il Covid (Tabella 1).

Alla luce di questi dati, secondo la legge attualmente in vigore, l’età per il pensionamento di vecchiaia, per il biennio 2027-28, dovrebbe aumentare di tre mesi, dagli attuali 67 a 67,3 anni, e dovrebbe aumentare anche il periodo di contribuzione necessario per aver diritto alla pensione di anzianità. Come accennato, questo adeguamento è necessario per non squilibrare il nostro sistema pensionistico, in cui gli assegni degli attuali pensionati vengono pagati mediante i contributi degli attuali lavoratori, con il fondamentale supporto della fiscalità generale. È stato calcolato che, se l’età alla pensione di vecchiaia restasse di 67 anni, il “buco” per le casse dello Stato sarebbe – per ogni anno a venire, e non una tantum – di tre miliardi, uno per ogni mese di mancato incremento dell’età al pensionamento. La questione è che ogni mese di avanzamento della speranza di vita a 65 anni “costa” il doppio: un mese in meno di contributi versati e un mese in più di pensione. Se la sopravvivenza degli anziani aumentasse ancora – com’è auspicabile – la soglia di età la pensione di vecchiaia e quella del numero di anni di contribuzione necessari per aver diritto alla pensione di anzianità dovrebbero spostarsi ancor più in avanti.

È opportuno chiederci se questo sistema, sostenibile dal punto di vista contabile, lo è anche per la vita delle persone. A mio avviso, sarebbe opportuno introdurre alcuni correttivi. Tuttavia, premessa fondamentale è di non pesare ulteriormente sugli attuali lavoratori, che già versano al sistema pensionistico il 33% del loro stipendio lordo, a fronte del 18% della media dei paesi sviluppati. È questa una delle ragioni per cui gli stipendi netti, in Italia, sono così bassi, anche se un livello così alto di contribuzione, in Italia, è garanzia per tutti i lavoratori dipendenti di una pensione relativamente elevata: al contrario, in molti paesi con bassa contribuzione obbligatoria la pensione pubblica non è garantita a tutti o è molto bassa. 

Ragioniamo su due possibili correttivi, non toccando le regole attuali (e quindi aumentando sia la soglia per la pensione di vecchiaia sia il periodo di contribuzione necessario per accedere a quella di anzianità al crescere della speranza di vita), ma introducendo due nuove possibilità.

Le modifiche del TFR

La prima proposta – che sembra essere allo studio anche dell’attuale Governo – è di intervenire sul Trattamento di Fine Rapporto (TFR), che per i lavoratori dipendenti ammonta a quasi una mensilità per ogni anno di lavoro, e viene versato al lavoratore dopo il pensionamento, o successivamente a un cambio di datore di lavoro. Si potrebbe permettere al lavoratore di andare in pensione anticipata, pagando i contributi mancanti mediante una porzione del TFR. Un certo numero di lavoratori potrebbe preferire di andare in pensione prima, “pagandosi” qualche anno di lavoro in meno, rinunciando a ricevere gli stessi soldi in età più avanzata.

Un’altra possibilità, che va oltre il ragionamento sul sistema pensionistico, sarebbe di permettere ai lavoratori di rinunciare al TFR, ricevendo direttamente il suo ammontare in busta paga. In questo modo il TFR da salario differito diverrebbe salario effettivo. Quest’ultima proposta potrebbe suonare come troppo liberal, lontana dalla cultura del lavoro sedimentata in Italia. Tuttavia va riconosciuto che il TFR – che esiste in pochissimi paesi – è un’istituzione venata di paternalismo: credo che anche in Italia i singoli lavoratori sarebbero in grado di risparmiare e spendere secondo i propri ritmi e le proprie necessità. Inoltre il TFR è nato quando in Italia non esistevano tutte le odierne possibilità di risparmio assistito. Questa possibilità avrebbe il vantaggio di innalzare gli stipendi per i lavoratori dipendenti, che oggi in Italia sono fra i più bassi dei paesi a sviluppo avanzato.

Un sistema misto fra lavoro e pensioni

La seconda proposta è permettere e incentivare meccanismi misti di lavoro e pensione. Una mia amica insegnava italiano al biennio di un istituto tecnico statale: diciotto ore a settimana a sgolarsi per inculcare Manzoni e Verga a giovani adolescenti (più la preparazione delle lezioni, gli aggiornamenti, il registro elettronico, le riunioni, i compiti da correggere e quant’altro) non erano per lei più sopportabili, ed è andata appena possibile in pensione di anzianità. Tuttavia, la mia amica avrebbe accettato volentieri di continuare a insegnare a orario ridotto, con un meccanismo misto di lavoro e pensione. Come lei, molti lavoratori “non ne possono più” perché trovano sempre più gravoso un orario a tempo pieno, ma non vogliono o non possono accedere al part-time, dimezzando lo stipendio. Purtroppo, le normative vigenti fanno sì che forme miste di lavoro e pensione, per i lavoratori dipendenti, siano praticamente impossibili. 

Si tratta invece di una pratica usuale per molti lavoratori autonomi, che dopo essere andati in pensione, spesso con assegni modesti, continuano la loro attività, diminuendo progressivamente il loro impegno lavorativo. Si tratterebbe di estendere anche ai dipendenti questa possibilità, ovviamente senza abbassare l’ammontare delle loro pensioni ai livelli di quelle percepite dagli autonomi. Si potrebbe iniziare, a titolo sperimentale, dalle categorie per cui questo mix fra lavoro e pensione sarebbe di facile realizzazione, come gli insegnanti o altri impieghi per cui la riduzione dell’orario di lavoro non comporti particolari problemi organizzativi.

Riaprire il cantiere delle pensioni, ma senza pesare sui giovani e sui lavoratori

Per la politica, evitare di alzare l’età al pensionamento è un’attrazione irresistibile, perché sembra essere una formidabile garanzia di consenso, in una demografia dove molti potenziali elettori – i boomer – sono proprio sulla soglia dell’età per smettere di lavorare. Oggi gli italiani di 55-64 anni sono 9,27 milioni, contro appena 6,26 milioni dei loro figli, che hanno 25-34 anni. 

Tuttavia, non innalzare le soglie pensionistiche in armonia con l’incremento della sopravvivenza degli anziani genererebbe un nuovo peso sulle spalle dei giovani, che le classi dirigenti dovrebbero tutelare non solo a parole, ma anche con l’azione politica e amministrativa. Oggi molti giovani sono afflitti da basse retribuzioni e da prospettive di vita percepite come peggiori rispetto a quelle vissute dai loro genitori. La demografia può aiutare a mettere in evidenza la realtà, evitando di mettere la polvere sotto il tappeto. 

Tuttavia, come abbiamo cercato di mostrare, è possibile adottare provvedimenti che potrebbero rendere più flessibile l’uscita dal lavoro. È possibile farlo aggiungendo nuove possibilità a quelle esistenti, senza ledere i diritti acquisiti di nessuno, ma senza pesare sulle spalle delle generazioni future.

(*) Una versione ridotta di questo testo è stata pubblicata su “Avvenire” a fine agosto 2025

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