Nell’ultimo decennio si è delineata, nella popolazione anziana di tutta Europa, una moderata crescita dei tassi di attività, prima ovunque attestati su livelli minimi. Ne parla Massimo Livi Bacci, che pone in rilievo il contrasto tra la bassa presenza degli anziani nel mercato del lavoro, e il buono stato di salute di una loro consistente quota.
In passato – quando l’agricoltura dominava l’economia, le attività industriali erano ridotte, le imprese erano per lo più a carattere familiare e artigianale – gli anziani rallentavano l’attività lavorativa gradualmente, al passo delle loro energie e della loro salute. All’inizio del secolo scorso, i tassi di attività degli uomini con più di 65 anni superavano l’80 per cento (84,7% al censimento del 1901 e 81,4% a quello del 1911): praticamente tutti, salvo gli invalidi e gli ammalati, avevano un qualche frammento di lavoro – fosse per fare cestini, dar da mangiare ai polli, o coltivare l’orto. Gli anziani, cioè, creavano valore, anche minimo o poco più che simbolico, e erano parti vive della società. Sappiamo quali cambiamenti profondi abbia generato lo sviluppo, che ci ha permesso – tra l’altro – di campare il doppio di anni di un secolo fa. Oggi, solo una piccola frazione della popolazione, in Italia e nel mondo sviluppato, esercita una qualche forma di attività in una fase della vita che è assai più estesa di ieri. Fino a che punto è sostenibile una situazione del genere a fronte del rapidissimo aumento della popolazione anziana?
Più anziani al lavoro, ma sempre pochi
È da molti decenni che il fenomeno dell’invecchiamento demografico – in parallelo con la continua diminuzione delle nascite – è diventato evidente, come ineluttabile sarà il suo progredire nei prossimi decenni. I dati sono ben noti: in Italia, nel 2000 circa il 20% della popolazione aveva più di 65 anni, una proporzione salita al 25% nel 2025, che nel 2050 sfiorerà il 35%, restando successivamente attorno a questa quota. Gli altri paesi europei stanno percorrendo un cammino analogo, anche se l’Italia li sopravanza quasi tutti per intensità dei fenomeni che ne determinano il corso (la fecondità tra le più basse del continente, la longevità tra le più lunghe). Potrà la società italiana mantenere la coesione e i livelli di vita raggiunti se –con regole di funzionamento invariate – si troverà con oltre un terzo della popolazione fuori della vita attiva?
Qualcosa, tuttavia, sta muovendosi. In un recente contributo su Neodemos si legge, con riferimento all’Italia: “Le riforme pensionistiche introdotte dagli anni novanta hanno sospinto la partecipazione al mercato del lavoro nelle fasce di età più avanzate. Questa tendenza si è riflessa in un aumento dell’età media effettiva di pensionamento per vecchiaia da 62,1 anni nel 2012 a 64,6 nel 2023. Tra il 2004 e il 2024, il tasso di partecipazione tra i 55 e i 64 anni è aumentato dal 31,7 al 61,3 per cento, pur rimanendo di quasi otto punti percentuali inferiore alla media dell’area dell’euro. Quello nella fascia di età tra 65 e 74 anni è cresciuto dal 5,0 al 10,7 per cento, ma è ancora inferiore a quello di paesi come la Germania (15,9 per cento) (Figura 1). Il prolungamento della vita lavorativa non discende solo dalle regole previdenziali, ma anche dal miglioramento delle condizioni di salute”.1 Nella maggior paesi europei nelle età mature e anziane (da 55 a 75 anni) i tassi di attività nel decennio 2012-2022 sono sensibilmente aumentati ovunque, ma meno della media in Italia. Dove, tra gli uomini tra i 70 e i 75 anni, solo uno su 25 viene classificato come attivo.

Tendenze e controtendenze
Va osservato che i fattori della bassa partecipazione al lavoro degli anziani sono molteplici, prima tra questi una legislazione pensionistica relativamente generosa, riformata solo a partire dagli anni ’90, come già ricordato. Tra i più anziani, spesso entrati giovanissimi al lavoro, fa difetto quel livello di formazione oggi necessario anche per lavori poco qualificati. Nell’insieme si può dire che le condizioni di vita e sociali degli anziani di oggi stiano subendo una profonda trasformazione e che convivono modelli antichi con modelli più adatti alla società attuale. Tuttavia c’è un forte contrasto tra l’aumento dell’attivismo degli anziani (sport, viaggi, consumi, partecipazione alle varie forme di vita sociale) e la loro rarefatta presenza nel mercato del lavoro. C’è una retorica della “silver economy” che valorizza le potenzialità di consumo e la richiesta di benessere degli anziani, ma che trascura l’altro aspetto che attiene all’origine delle risorse necessarie (lo stato? I risparmi degli anziani? I trasferimenti dai familiari?) per soddisfare queste esigenze
Lo stato di salute dei seniores
L’inversione di tendenza avvenuta negli ultimi anni, che vede più seniores al lavoro, è destinata ad esaurirsi, o potrà prolungarsi nel futuro? Data la molteplicità dei fattori che determinano la propensione al lavoro (lo stato di salute, il bisogno economico, le condizioni normative, la disponibilità di lavori convenienti, per dirne alcuni) ogni previsione è un azzardo, anche se il rapido invecchiamento fa ritenere che questo debba avvenire, pena la bancarotta dello stato sociale, e non solo.
Limitiamo il campo, e consideriamo le condizioni di salute. Nell’ultimo mezzo secolo, la speranza di vita ha continuato la sua crescita secolare; nel 2024 per gli uomini di 65 anni era pari a 19,8 anni, e per le donne della stessa età a 22,6; oltre sei anni in più, per i due generi, rispetto a cinquanta anni prima. Più longevità significa anche, mediamente, miglior salute. Esistono oramai molte indagini affidabili che misurano lo “stato di salute” percepito dalle persone (che è diverso da quello oggettivo, e dipende fortemente da fattori culturali). In attesa di conoscere i dati dell’indagine del 2025 (ancora in corso) che permetterà anche aggiornati confronti con gli altri paesi europei2, si consideri la Figura 2, che riporta la % degli anziani, per età, affetti da multi morbilità (nella maggioranza si tratta di artrosi, ipertensione, patologie lombari e cervicali), o patologie a cronicità grave (ictus, tumori, Alzheimer e demenze, malattie cardiache, incluso infarto o angina, diabete, parkinsonismo, malattie respiratorie croniche). Multimorbilità e cronicità grave, come è ovvio, aumentano rapidamente con l’età, dal 44% per la popolazione (uomini e donne) tra i 65 e i 74 anni al 66% oltre gli 85 anni; lo stesso di si dica per la cronicità grave (da 34,2% al 59,4%, per le stesse cassi di età). Tuttavia non sappiamo in che misura queste condizioni – la cui incidenza appare elevata – siano incompatibili con le singole attività lavorative.3

Più informative per il discorso qui svolto, sono le indagini sulla “percezione” dello stato di salute individuale. Secondo i dati riportati da Eurostat, relativi al 2023, nella media dei paesi UE, quasi la metà della popolazione tra i 65 e i 74 anni considerava la propria salute “buona o molto buona”; tra i 75 e gli 84 anni la proporzione è di circa un terzo, e di circa un quinto oltre gli 85 anni. C’è una forte variazione da paese a paese – l’Italia si trova in posizione mediana – appare però che in ogni classe di età le persone in buona salute siano un multiplo di quelle che lavorano.
C’è sicuramente molto da indagare, da interpretare e da discutere. Tuttavia è evidente che si sta formando una crescente massa di persone in buona salute, e che buone politiche possano dare forza alla tendenza (più anziani al lavoro) brevemente tratteggiata, utile antidoto ai mali dell’invecchiamento demografico.
Note
1Scarsità di lavoro: un’analisi della Banca d’Italia. ”Neodemos”, 10 Giugno 2025
2www.istat.it/informazioni-sulla-rilevazione/indagine-europea-sulla-salute-ehis/
3Dati più aggiornati si trovano in G. De Santis, E. Barbi, L. Frova, L. Iannucci, G.Salinari, “Salute e sopravvivenza”, in Rapporto sulla Popolazione. Verso una demografia positiva. Il Mulino, Bologna, 2025, pp. 139-166.