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Università senza studenti: esiste una finestra temporale per salvare il salvabile? E dove?

Massimo Armenise*, Federico Benassi tornano, insieme a Gaetano Vecchione, sul tema delle “Università senza studenti” (Le università senza studenti, Neodemos 2021) fornendo un quadro articolato di quello che dobbiamo aspettarci nel futuro e dei tempi, sempre più stretti, che ancora restano per improntare politiche attive di intervento al fine di contrastare una deriva che potrebbe trasformare gli attuali divari territoriali in vere e proprie fratture.

Le ultime previsioni demografiche realizzate dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), evidenziano come la popolazione residente in Italia, scenario mediano, passerà nei prossimi 50 anni (2021-2070) da 59,2 milioni a 47,7 milioni con una variazione negativa del 19,4%. Queste tendenze saranno territorialmente eterogenee, impattando con intensità diverse sul sistema di istruzione terziario italiano e, nel lungo periodo, sulla crescita economica. Di seguito vengono proposti i risultati di simulazioni sulle iscrizioni universitarie nelle diverse sedi italiane, utilizzando scenari attesi a 10, 15 e 20 anni, in assenza di politiche attive di intervento. I dati di popolazione si riferiscono alle statistiche sullo stock della popolazione residente per età al 2020 e alle previsioni demografiche prodotte da ISTAT sulla popolazione residente sia per comuni (2021-2031), che per regioni (2021-2070)1. I dati relativi agli studenti si riferiscono invece allo stock di iscritti ai corsi di laurea in ogni università localizzata in Italia secondo il luogo di residenza e per gli anni accademici che vanno dal 2010-2011 al 2020-2021 (Anagrafe Nazionale Studenti del MUR). Lo studio è un approfondimento di quanto già pubblicato sul tema (Le università senza studenti, Neodemos) e rappresenta un sunto del capitolo sette del Rapporto SVIMEZ 20222. L’economia e la Società del Mezzogiorno a cui si rimanda per una lettura più analitica e dettagliata. 

Disparità territoriali che crescono 

La simulazione effettuata mostra come in Italia (Tabella 1 per i risultati completi), c’è una crescente disparità, se non una vera e propria polarizzazione, territoriale in termini di prospettiva fra gli atenei del Centro-Nord e quelli del Mezzogiorno. I primi sembrano infatti poter godere di una finestra temporale di dieci anni (2021-2031), periodo di tempo piuttosto breve da un punto di vista demografico, ma significativo in termini di policy, nel quale non perderanno iscritti. Anzi, alcuni atenei di questa macro-ripartizione geografica vedranno crescere il numero dei loro iscritti (si veda Figura 1). In tale finestra questi atenei dovrebbero agire per evitare quello che accadrà inevitabilmente nel medio e lungo periodo (scenario al 2041), quando anche loro (ceteris paribus) perderanno quasi un quinto degli iscritti in seguito alla dinamica demografica prevista.

Al contrario gli atenei del Mezzogiorno, più colpiti dal calo demografico e meno capaci di attrarre studenti da territori lontani, sembrano essere condannati a perdere iscritti già nei prossimi 10 anni, con una dinamica che diviene poi via via più pesante, al punto da mettere a rischio la stessa sussistenza di alcune università. Ma, anche in questi territori emergono delle differenze fra atenei, con alcuni che vedranno fra soli 10 anni una contrazione del numero di iscrizioni di oltre un decimo (si veda Figura 2), e altri (Federico II, Catania, Chieti) che perderanno invece una quota minore di iscritti.   

Cosa fare? 

Quali sono i possibili interventi in grado di scongiurare il rischio chiusura per molte università? Una possibile strategia politica può essere articolata in un mix di azioni: 

1) incrementare il numero di studenti stranieri, magari pensando a politiche di selezione e di attrazione di cervelli proprio da quei paesi del Mediterraneo con popolazioni meno invecchiate della nostra, ma anche da paesi geograficamente più distanti come, ad esempio, la Nigeria (che nel finire del secolo è prevista diventi la nuova “Cina africana”), e con i quali si condividono alcune specializzazioni e/o convergenze ambientali e sociali. Con riferimento ai paesi della sponda Sud del Mediterraneo, ci riferiamo ad esempio alla scarsità di risorse idriche e ai processi di desertificazione ma anche dall’affacciarsi sullo stesso sistema eco-marino, da un lato, e, dall’altro, dall’essere coinvolti (pur con ruoli diversi) in comuni processi migratori internazionali. Tali convergenze dovrebbero essere sfruttate dalle Università per attirare studenti da questi paesi per formarsi e studiare su tematiche e problematiche che interessano anche quegli stessi paesi. 

2) pensare a una riorganizzazione “funzionale” degli atenei, in particolare quelli del Mezzogiorno, puntando su forme di collaborazione e cooperazione di alto livello fra atenei, secondo una struttura coerente con le specializzazioni e le vocazioni dei contesti locali; 

3) ripensare il ruolo stesso dell’Università anche alla luce delle trasformazioni del mercato del lavoro indotte dall’avanzamento della conoscenza. In concreto ciò vorrebbe dire dedicarsi non solo ai corsi di laurea ordinari (triennali e magistrali) ma anche ad una nuova offerta formativa più attenta alle esigenze del mercato del lavoro e a chi già lavora, indipendentemente dagli ambiti disciplinari. L’obiettivo è dunque attivare quei processi di upskilling e reskilling spesso richiamati ma poco attuati nella PA come nell’industria manifatturiera o nelle società di servizi. Il primo passo in tal senso potrebbe essere dare finalmente impulso alle Lauree professionalizzanti (LP) e/o agli Istituti Tecnici Superiori (ITS) al fine di avvicinare l’istruzione terziaria al mondo delle imprese. La popolazione over 40 diverrà sempre più preponderante, ed è quindi possibile pensare che le università possano essere luoghi frequentati non esclusivamente (o quasi) da giovani ma anche da quelle fasce di popolazione più adulte che possono ricercarvi una diversa formazione. Far emergere questa trasformazione che già è in atto significherebbe evitare il rischio che, pur di mantenere in vita tutte le università ovunque esse siano, queste si trasformino di fatto in centri di formazione permanenti al ribasso; 

4) valorizzare l’impatto sociale dell’Università che, soprattutto se opera in contesti periferici a rischio spopolamento, deve vedersi riconosciuta una parte addizionale di risorse del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) per il ruolo di presidio civile che ricopre. Contrariamente a quanto avviene oggi dove la logica premiale, sacrosanta ma pericolosamente distorsiva a risorse declinanti come nel caso dell’FFO, va di fatto a trasferire risorse ordinarie dalla “periferia” verso il “centro”, acutizzando di fatto le già presenti disparità territoriali lungo il Paese. 

Conclusioni

L’Università rappresenta, insieme alla Scuola, la sede primaria per la formazione del capitale umano, costituendo uno dei fondamentali asset per realizzare innovazione e transizione ecologica. Rispetto al tema della desertificazione, gli investimenti previsti nell’ambito della misura 4 del PNRR saranno in grado di attivare una reale inversione di tendenza? C’è alla base un rilevante nodo “politico”, relativo a quale configurazione del sistema universitario, fra quelle possibili, possa essere più coerente con gli assi strategici del Paese. Il rischio è che in assenza di politiche attive volte a valorizzare le sedi universitarie periferiche, l’implementazione in atto del PNRR possa amplificare, piuttosto che ridurre, i divari tra gli atenei del centro e quelli della periferia, tra gli atenei grandi e quelli piccoli. Consegnandoci, nel 2026, un Paese con divari ancora più marcati.  

*Le opinioni espresse sono da considerarsi personali e non necessariamente riflettono quelle dell’Ente di appartenenza. 

Note

1Si rammenta che le previsioni demografiche per comuni sono statistiche “sperimentali” così come indicato dall’ISTAT (demo.istat.it) mentre le previsioni demografiche a scala regionale sono statistica ufficiale.

2Il capitolo è collocato nella Seconda Parte del rapporto dedicata alla “Questione Nazionale delle Diseguaglianze”.

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