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Effetti demografici di Covid-19: scenari di natalità

I timori, le incertezze, la perdita del lavoro generati dall’epidemia fanno temere una ulteriore flessione delle nascite in Italia. Gian Carlo Blangiardo propone alcune stime quantitative, e ricorda le conseguenze di shock recenti sulle nascite, da Chernobyl alla unificazione delle due Germanie, alla recente crisi economica in Grecia e in Italia.

Ancor meno di così?

Anche nel 2019 il totale dei nati in Italia ha segnato, per il settimo anno consecutivo, un record negativo: un nuovo punto di minimo negli oltre 150 anni di Unità Nazionale. I dati ufficiali, seppur provvisori, parlano di 435 mila nascite. Prosegue dunque una dinamica regressiva che, a partire dal “punto di svolta” del 2008, in poco più di un decennio ha ridotto di circa un quarto il numero annuo di neonati (figura 1).

Ma nella storia del nostro Paese, il diagramma che descrive l’evoluzione delle nascite non è nuovo a tratti di prolungata e forte pendenza negativa. Nel secondo dopoguerra, ciò è accaduto sia tra il 1947 e il 1951, con lo smaltimento del picco dei recuperi post bellici (del 1946), sia nella fase di “rientro nei ranghi” che ha accompagnato, protraendosi sino al 1974, il post baby-boom di metà anni ’60. Va poi ricordato il vero e proprio crollo della natalità manifestatosi, con toni ancor più marcati, nel successivo ventennio: dagli 886 mila nati del 1974 ai 628 mila sette anni dopo; per poi proseguire, seppur gradualmente, sino a raggiungere il primato negativo di 526 mila nascite nel 1995. La stagione di quiete apparente nel decennio a cavallo del nuovo secolo, con persino qualche segnale di debole crescita (2002-2008), si è poi rapidamente conclusa con l’arrivo della crisi economica che, affiancata da alcune trasformazioni strutturali della popolazione in età feconda, sembra aver impresso al diagramma delle nascite un nuovo rapido orientamento verso un’intensa e rapida discesa.

Poi è arrivato Covid-19, con il suo seguito di drammatiche conseguenze. Fra le quali, oltre a quelle di ordine sanitario, spiccano talune rivoluzionarie trasformazioni imposte all’organizzazione sociale e familiare, nel cui ambito le stesse relazioni della vita di coppia e le scelte nella sfera affettiva e riproduttiva finiscono col risultare fortemente esposte al cambiamento. Che ne sarà dunque della natalità nel prossimo futuro? Non v’è dubbio che scenari a tinte fosche saranno quasi certamente destinati a fare da sfondo alla sempre più impegnativa scelta se fare, o meno, un (o un altro) figlio. Scelta che inevitabilmente andrà maturando entro un clima di incertezze e di difficoltà, economiche e non solo, della cui durata non è ancora dato sapere. E allora: quali conseguenze possiamo realisticamente collegare a tali scenari, allorché ci si interroga sul numero di nascite che registreremo negli anni a venire?

Tra incertezza e paura (ricordando Chernobyl)

Per tentare di tradurre in valori numerici l’influenza che l’epidemia potrebbe esercitare sul fronte della natalità conviene chiamare in causa due diversi fattori, il clima di “incertezza e paura” e le crescenti “difficoltà di natura materiale” (legate a occupazione e reddito), che potrebbero condizionare le scelte di fecondità delle coppie italiane.

Circa il primo fattore, un valido esempio dei suoi possibili effetti sembra ricavabile da un’esperienza che risale a 34 anni fa: il disastro nucleare di Chernobyl. Come molti ricordano, il 26 aprile del 1986 un’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl (Ucraina) provocò una pericolosa nube tossica, in rapido movimento su tutto il territorio europeo. L’Italia fu raggiunta tra il 2 e il 4 maggio, e la popolazione si trovò improvvisamente circondata da un clima di forte insicurezza. Chi ha seguito allora con apprensione nemici invisibili e scarsamente conosciuti, come il Cesio, il Plutonio o lo Stronzio, non può non ritrovare nelle angosce da Coronavirus di questi giorni un preoccupante déjà vu. E non deve dunque stupirsi se, oggi come a quel tempo, l’incognita di un futuro denso di incertezze rischia di configurarsi come freno alle scelte di riproduttività.

D’altra parte, le statistiche del 1987 documentano come nove mesi dopo la grande paura di Chernobyl le nascite in Italia abbiano subito un visibile ribasso (figura 2). Al forte calo rilevato a febbraio – dovuto ai minori concepimenti nel maggio 1986 – e quantificabile nel 10% di nati in meno rispetto al dato medio (dello stesso mese) nei bienni (1985-1986 e 1988-1989, hanno fatto seguito analoghe contrazioni a marzo (-6%), aprile (-3%), maggio (-5%) e giugno (-2%).

Applicando variazioni analoghe a distanza di nove mesi dal periodo caratterizzato da Covid-19 si giunge così a valutare una perdita di circa 4 mila mancate nascite in corrispondenza del mese di dicembre 2020 e complessivamente altri 5-6 mila nati in meno nel corso del 2021, persi durante l’intervallo che va da gennaio ad aprile. In sintesi si può affermare che, da quanto simulato in relazione al condizionamento derivante da incertezza e paura (sul modello dell’esperienza di Chernobyl 1986), l’impatto immediato della pandemia in atto sulla riduzione delle nascite dovrebbe contenersi nell’ordine di poco meno di 10 mila unità, ripartite per un terzo nel 2020 e due terzi nel 2021.

Quali gli effetti del disagio economico?

Diverso e più complesso appare l’esercizio di simulazione quando dal parallelo con precedenti situazioni di pericolo, si passa a quello con situazioni di difficoltà materiali. In proposito, assumendo il livello di disoccupazione come indicatore proxy del clima di disagio o di insicurezza economica nella popolazione e nelle famiglie, si ha modo di accertare, tra la serie dei tassi mensili di disoccupazione e la corrispondente serie mensile di nascite nel periodo gennaio 2004-novembre 2019, una forte correlazione negativa (quand’anche spuria) che verrebbe a tradursi – tramite un appropriato modello di regressione lineare – in circa 1500 nati in meno per ogni punto di disoccupazione in più.

Ciò premesso, sommando i risultati derivanti dallo shock occupazionale – valutandone gli effetti sulla natalità a nove mesi di distanza – a quelli derivanti dai fattori di incertezza e paura, di cui si è detto, si perviene a uno scenario che propone, rispetto ai 435 mila nati del 2019, una riduzione che nel 2020 potrebbe mantenersi attorno a due punti percentuali, mentre nel 2021 risulterebbe decisamente più accentuata. Nell’ipotesi di minimo – calibrata secondo le tendenze di fondo delle proiezioni Istat – si registrerebbe nel 2021 un calo del 4,5% (rispetto al 2019) secondo la variante occupazionale più ottimistica (crescita della disoccupazione di 2,5 punti e rientro nell’arco di un semestre) e del 9,8% secondo quella relativamente più pessimistica (+20 punti da recuperare in 24 mesi). Nell’ipotesi di massimo il calo complessivo si manterrebbe tra il 2% e il 7,3%.

I 435 mila nati del 2019 scenderebbero a circa 426 mila nel bilancio finale del corrente anno, per poi ridursi a 396 mila, nel caso più sfavorevole, in quello del 2021. In generale, il superamento al ribasso del confine simbolico dei 400 mila nati annui, che sarebbe dovuto avvenire solo nel 2032 e nell’ipotesi più pessimistica (stando alle previsioni Istat più recenti), sembra invece possibile qualora si realizzi un rapido raddoppio del tasso di disoccupazione, quand’anche seguito da un graduale ritorno ai valori precedenti marzo 2020 (spalmato nell’arco di circa un biennio).

Rievocare il passato per immaginare le vie del futuro

Per dare realismo agli scenari proposti (e ragionevolezza alle corrispondenti ipotesi) può essere utile richiamare altre significative esperienze in cui la dinamica della natalità ha risentito di importanti e improvvisi shock legati al mutamento del contesto. Ad esempio, ci si può riferire in tal senso, sia all’esperienza del cambio di regime nella Repubblica Democratica Tedesca dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, sia alle difficoltà di ordine socio-economico che hanno interessato la Grecia nella tempesta finanziaria a cavallo del 2010.

In particolare, l’esperienza della Germania Est si contraddistingue per il passaggio da circa 200 mila nati nel 1989 a meno di 90 mila a distanza di un triennio (-56%)¹ e, di riflesso, per un crollo della fecondità da 1,58 di figli per donna prima della caduta del muro a 0,98 nel 1991, e ancor più giù nel 1992 (0,83). È evidente che nel caso tedesco si è trattato di una reazione in cui l’incertezza nel futuro e le mutate condizioni e prospettive di vita hanno intensificato e accelerato processi di scelta che, nel caso italiano del nostro tempo, possiamo realisticamente sperare siano più contenute e vengano in buona parte ammortizzate da appropriate azioni di governo.

Ma se l’accostamento agli eventi che hanno coinvolto la Germania nel 1989 sembra far emergere ordini di grandezza verosimilmente distanti dalle conseguenze che a breve potremmo attenderci in Italia sul fronte della natalità, l’esempio della Grecia nello scorso decennio appare assai più vicino agli scenari che abbiamo qui prospettato. Nei sei anni tra il 2008 e il 2013 la popolazione greca ha infatti sperimentato un calo delle nascite del 20,4% (da 118 mila a 94 mila) e una riduzione del livello di fecondità del 14% (da 1,50 a 1,29 figli per donna). Nello stesso periodo, il tasso di disoccupazione ha segnato un aumento di poco inferiore ai 20 punti percentuali (da 7,7% a 27,3%): incidentalmente, proprio quell’incremento che nello scenario della tavola 1 è stato qui prospettato per l’Italia come “variante più pessimistica”. Nel contempo, il lento rientro su livelli di disoccupazione più moderati, avviato in Grecia dal 2014, ha trovato riscontro in un parallelo rallentamento del calo della natalità. Quest’ultima perde circa 6 mila unità tra il 2014 e il 2018 – più che altro per via di significative modifiche nella struttura per età della popolazione femminile – ma il numero medio di figli per donna sale da 1,29 nel 2013 a 1,30 nel 2014 per poi ancora a 1,35 del 2018. In fondo,” anche il peggio ha una fine”.

 

Per saperne di più

(Una versione più dettagliata del testo si può trovare in #Istat per il paese – Interventi su scenari per Covid-19, www.istat.it)

[1] Monnier A., L’Europe de l’Est sans repères, Population & Sociétés, 283, Octobre 1993, p.3.

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