Le politiche familiari sono in primo piano nel dibattito pubblico italiano. Nei mass media si trova ampio riconoscimento dell’importanza di agire per ridare vitalità al Paese, mentre sul come agire le posizioni oscillano tra scetticismo e perplessità. Come sottolineano Marcantonio Caltabiano e Alessandro Rosina, alcune evidenze vanno però considerate acquisite e alcune indicazioni sulle misure da adottare sono chiare. Partiamo da lì.
Le politiche e il dibattito pubblico sulla natalità
L’Italia è uno dei paesi occidentali con più deboli politiche a favore delle famiglie e della natalità. Se, come dicono molte indagini, le preferenze sul numero di figli desiderato non si discostano da quelle che si riscontrano nel resto d’Europa, il fatto di avere uno dei tassi di fecondità più bassi può essere letto come evidenza di carenza di misure efficaci a favore delle famiglie, del loro benessere e delle loro scelte riproduttive. Solo responsabilità della politica? In larga parte sì, ma non solo. E’ evidente che è mancata anche la pressione dell’opinione pubblica verso alcune scelte da considerare prioritarie (o meno), sorretta da informazione adeguata su come sta cambiando la società e quali politiche è utile attuare.
Proprio sul tema della natalità, un esempio di informazione in grado di orientare il dibattito pubblico sulle politiche da realizzare è l’articolo pubblicato l’1 ottobre 2019 sul Corriere della Sera dal titolo “Dossier denatalità, perché ottomila nati in meno?” di Federico Fubini. L’articolo di Fubini ha certo vari pregi nel porre il tema, la sua analisi si limita però ad una misura di base come il numero di nati, che lo porta ad affermare che: a) non sembra che dove c’è più occupazione e nidi ci sia una migliore dinamica delle nascite; b) il mistero della bassa natalità italiana viene svelato dal fatto che si riduce il numero delle donne in età fertile.
Queste conclusioni non sono sbagliate, ma vanno chiarite per fornire un quadro più completo all’interno del quale sviluppare le riflessioni sulle politiche.
Il primo punto di chiarimento è che la correlazione (sia considerando i paesi Ocse, che anche all’interno del territorio italiano) tra tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità si è, in realtà, effettivamente rafforzata nel tempo (si veda qui). Secondariamente l’impatto della riduzione del numero di donne in età fertile sulle nascite non è un mistero, ma è un fatto da tempo messo in evidenza sia dagli studiosi che all’interno degli annuali rapporti Istat.
A parità di tasso di fecondità (ovvero di numero meglio di figli per donna), la riduzione delle potenziali madri trascina verso il basso il numero totale di nascite (Neodemos 2016: La caduta delle trentenni che inguaia la demografia italiana).
L’articolo di Fubini fa certo bene a sollevare dubbi sulle cause della bassa fecondità italiana e a sottolineare l’importanza dell’analisi territoriale. Non abbiamo esperimenti di laboratorio in grado di chiarire in modo certo relazioni di causa ed effetto. Ci sono però due punti che possiamo considerare solidi: il primo è che le politiche possono mettere nella condizione favorevole chi desidera avere un figlio, ma non necessariamente hanno lo stesso effetto in contesti diversi; il secondo è che non c’è una unica misura che funziona per tutti, ma i paesi che più hanno investito su un ampio e solido pacchetto di sostegno economico e servizi a favore della famiglia sono quelli con fecondità più elevata o con maggior ripresa delle nascite negli ultimi anni (Neodemos 2019: Declino delle nascite: un problema non solo italiano).
Tornando alla relazione tra natalità, occupazione femminile e politiche di conciliazione, la correlazione territoriale c’è, come abbiamo detto, ma ha bisogno di indicatori che consentano alle regioni e alle province di essere confrontate in modo adeguato.
L’analisi di Fubini è basata sul valore assoluto delle nascite, ma se si utilizza il numero medio di figli per donna (ovvero il tasso di fecondità totale, costruito in modo da calcolare la propensione ad avere figli in una popolazione al netto della sua struttura per età) il risultato cambia.
Relazione tra numero medio di figli per donna, occupazione e servizi per l’infanzia
La tabella che segue mostra la forza della relazione tra tasso di fecondità totale (TFT), occupazione femminile e servizi per la prima infanzia a livello regionale. Non solo il numero medio di figli per donna (sintetizzato dal TFT) è più alto nelle regioni dove sono maggiori i servizi per l’infanzia e l’occupazione femminile, ma anche la sua variazione in aumento nell’ultimo quindicennio è stata più intensa nelle regioni del centro-nord, ovvero dove i valori sono più alti, viceversa nel Mezzogiorno il declino del TFT è accompagnato da valori più bassi degli indicatori selezionati.
Se approfondiamo l’analisi a livello provinciale emergono differenze interessanti tra le ripartizioni centro-nord e sud-isole. Il tasso di occupazione femminile presenta una correlazione positiva a livello provinciale con il TFT del centro-nord e negativa nel Mezzogiorno (Figura 1 e Neodemos 2018 Un Paese spaccato: lavoro femminile e fecondità nelle regioni italiane). Nelle province meridionali dove più donne sono occupate il numero medio di figli per donna è più basso, segno che la partecipazione delle donne al mercato del lavoro continua ad essere in collisione con la nascita di un figlio. Nel centro-nord invece la relazione è inversa: dove più donne lavorano è maggiore anche il TFT (relazione che da qualche decennio emerge a livello di paesi Ocse come abbiamo già sottolineato).
Vale anche se si fa la controprova con la relazione tra il tasso di inattività femminile (misura della quota di donne che restano fuori dal mercato del lavoro) e il TFT, che risulta negativa (anche se non molto intensa) nel centro-nord e positiva nelle province del Sud.
Una analoga relazione, seppur più debole, si trova tra fecondità e diffusione dei servizi per l’infanzia. Si tratta, in ogni caso, di semplici correlazioni che hanno alla base meccanismi complessi, in cui entrano in gioco non solo copertura territoriale e spesa per i nidi, ma anche effettiva accessibilità, qualità e flessibilità del servizio, costi a carico delle famiglie, caratteristiche e desideri delle famiglie stesse.
Conclusioni
Una ripresa del numero dei nati nonostante la diminuzione del numero di madri potenziali non è una impresa impossibile (si veda). Oltre al contributo di flussi migratori adeguatamente governati, è necessario agire sul tasso di fecondità totale e favorirne la crescita analogamente a quanto sperimentato in altri paesi europei o quanto osservato nella provincia di Bolzano.
Quello che manca all’Italia, rispetto agli altri paesi avanzati con livelli di natalità più elevati, è una specifica e continua attenzione allo sviluppo di misure integrate che sostengano e rafforzino: i progetti dei giovani di conquistare una propria autonomia e formare una propria famiglia, i progetti delle donne e delle coppie di conciliare in modo efficace il lavoro con la scelta di avere un figlio, oltre al contrasto del rischio di impoverimento delle famiglie con figli. Non è un’operazione facile, ma l’Italia è uno dei paesi che meno finora si sono seriamente cimentati a farlo
Link figura e tabella
Fonte figura e tabella 1 http://dati.istat.it.