In un recente articolo apparso su questo sito (“Pensioni? Non facciamo pasticci”, Neodemos, 7 giugno 2016), Gustavo De Santis esponeva in modo divertente, ma con argomentazioni serie e ben articolate, il suo punto di vista su un tema, quello delle regole pensionistiche, che è attuale e incombente anche quando si finge di ignorarlo o si tenta di rinviarne il dibattito.
La metafora dei pasticceri adottata in quella circostanza mi è piaciuta al punto da spingermi a copiarla per riflettere su un altro tema controverso del nostro tempo: la convenienza economica dell’immigrazione. O, meglio, il sostanziale contributo che la componente straniera fornisce (e fornirà) nel puntellare (e auspicabilmente far crescere, prima o poi) il prodotto interno lordo del nostro paese: il mitico PIL.
La “torta” del PIL e il contributo degli stranieri
Secondo un recente Rapporto del Centro Studi della Confindustria (CSC) nel 2015 il lavoro immigrato è valso l’8,7% del PIL italiano. Stiamo parlando di una torta di 124 miliardi di euro che, secondo quanto certificato dal dato Istat sull’occupazione straniera in quello stesso anno, è stata impastata, cotta e sfornata da un esercito di 2.359.000 “pasticceri” di varie nazionalità. Ognuno dei quali può vantarsi di aver prodotto (mediamente) una fetta del valore di 52.565 euro. Niente male come risultato! Neppure troppo diverso dal valore della fetta di torta attribuibile al complesso dei 20.105.000 pasticceri autoctoni (gli occupati italiani), cui le stesse fonti, CSC e Istat, riconoscono nel 2015 un PIL annuo di 1.293 miliardi di euro, equivalente a un contributo pro-capite pari a 64.312 euro.
Il relativo maggior “spessore” della fetta di torta prodotta dagli italiani (superiore del 22% a quella degli stranieri ) sembra dunque sposarsi bene con l’osservazione – tratta dallo stesso Rapporto di Confindustria (pag.21) – secondo cui: “(…) le retribuzioni annuali degli stranieri erano nel 2015 inferiori del 26% rispetto a quelle degli italiani, e il differenziale scende al 22% se si tiene conto della composizione per sesso e per livello di istruzione (…)”, lasciando intendere un certo equilibrio tra produzione e distribuzione del reddito. C’è pertanto da credere che chi fa una torta un po’ più piccola guadagni (proporzionalmente) un po’ di meno, ma abbia pur sempre di che mangiare e vivere dignitosamente.
Gli stranieri: buoni pasticceri ma borsa della spesa insufficiente
Il ragionamento si fa tuttavia delicato quando dal fare i conti nelle tasche dei singoli pasticceri, ci si sposta a trattare il bilancio delle loro famiglie. Quel quinto di torta prodotta in meno che differenza fa nelle disponibilità di reddito e nel tenore di vita familiare degli stranieri, rispetto agli italiani?
In proposito, già i dati dell’indagine della Banca d’Italia non sembrano particolarmente confortanti. Nel 2014 – dice il Rapporto CSC – quasi il 60% dei nuclei con uno straniero come persona di riferimento aveva un reddito non superiore a 18.000 euro, a fronte del 27% delle famiglie con a capo un italiano. Divario che trova un eloquente ulteriore riscontro analizzando i redditi familiari resi equivalenti (rapportando il dato assoluto al parametro OCSE che tiene conto della struttura del nucleo) in corrispondenza dei due gruppi oggetto di confronto: nel 2014 tale reddito era inferiore alla soglia di povertà relativa (fissata al 60% del valore mediano della distribuzione dei redditi equivalenti) per il 43,6% delle famiglie straniere, mentre lo era solo per il 20,4% di quelle italiane. Ma anche (anzi, soprattutto) i dati Istat sulla povertà assoluta (che colpisce chi non dispone del necessario per vivere) non mancano di sottolineare la forte contrapposizione tra pasticceri italiani e stranieri allorché dalla torta “prodotta” si passa a considerare quella “consumata”. Mentre sono sotto la soglia di povertà il 4,4% delle famiglie di soli italiani, la stessa cosa accade per ben il 28,3% di quelle formate unicamente da stranieri. Come giustificare che a una fetta di torta solo di circa un quinto più ridotta si finisce col far corrispondere un’incidenza della povertà assoluta oltre sei volte più grande? Verrebbero in mente numerose spiegazioni di vario genere, sia alternative che complementari. Si potrebbe pensare a differenze demografiche e di accesso al mercato del lavoro entro le strutture familiari. Oppure mettere in conto l’esistenza di un diverso modello di consumo. O ancora chiamare in causa l’effetto di una minor disponibilità di risorse da spendere, in quanto dirottate altrove (i 5 miliardi di rimesse). Certo, sono tutti elementi, questi e altri simili, che indubbiamente potrebbero avere qualche influenza sulla distanza tra i due gruppi, ma è difficile ritenere che siano in grado di giustificare pienamente l’entità di un divario come quello che i dati sulla povertà (e, a monte, sui consumi) documentano chiaramente.
Due interpretazioni del paradosso
Alla fine ciò che appare realmente sconcertante è osservare come pasticceri italiani e stranieri, pur avendo prodotto una fetta di PIL sostanzialmente simile, vadano drammaticamente aggirandosi con una borsa della spesa così diversamente piena.
Ecco allora che, stante l’evidente non quadratura del cerchio, vengono in mente due spiegazioni, una più da sindacalista, l’altra più da statistico. La prima è che forse, nonostante l’impressione ricavata dal confronto tra i dati medi delle retribuzioni di italiani e stranieri (ma tra questi ultimi le statistiche mettono anche Higuain?), il divario tra ciò che l’immigrazione dà all’economia italiana e ciò che riceve da quest’ultima non è proprio del tutto equivalente. Gli estremi per una controversia tra le due categorie di pasticceri non mancherebbero certo. D’altra parte, non è un mistero che il confine tra convenienza e sfruttamento è talvolta particolarmente sottile.
La seconda spiegazione, quella dettata da un po’ di esperienza nel trattare statistiche, è che semplicemente qualcuno abbia esagerato con il lievito nell’impastare la torta attribuita ai pasticceri stranieri (assai ben più di quanto possa aver fatto per quella degli stessi italiani). Detto in altri termini: forse i 124 miliardi di PIL sono sovradimensionati, e la corrispondente fetta realmente prodotta dagli immigrati è meno ricca di quanto sembra. Forse, stando a ciò che risulta distribuito e consumato dagli stranieri, quel “quasi 10% del PIL” (come si sente spesso dire), è più un obiettivo “per domani” – a dimostrazione dello sviluppo di un mercato del lavoro in grado di valorizzare e integrare la mano d’opera immigrata – che non un dato capace “oggi” di contribuire realisticamente ad una (doverosamente) serena valutazione del fenomeno migratorio nel nostro Paese.