Molti paesi a sviluppo avanzato devono oggi affrontare i problemi derivanti dal crescente invecchiamento della loro popolazione. I possibili correttivi demografici sono stati generalmente identificati nel rialzo della fecondità e nelle immigrazioni dall’estero. Mentre un eventuale rialzo della fecondità è generalmente considerato un rimedio scevro da conseguenze negative, l’afflusso di immigrati, che in molti paesi è diventato il principale motore della crescita demografica, è giudicato in maniera ancora controversa. Numerosi contributi, basandosi perlopiù su proiezioni e/o simulazioni e adottando prospettive cronologiche e territoriali differenti, si orientano verso la tesi che il numero di stranieri necessario per “sanare gli effetti collaterali” dell’invecchiamento sarebbe troppo elevato per non creare difficoltà ai sistemi di welfare, e in alcuni casi economici e politici, dei paesi di insediamento. Anche le analisi svolte nella nostra penisola (v. Gustavo De Santis, “With or without you (immigrant)” , e Giuseppe Gesano e Salvatore Strozza, “Possono gli immigrati ridurre l’invecchiamento della popolazione?” , Neodemos, 15/02/2012) non hanno ancora indicato un “rimedio” definitivo
Con il microscopio puntato sugli ultimi 10 anni
Un approccio abbastanza inconsueto, ma anch’esso non esaustivo, a questa tematica consiste nell’esaminare ciò che è avvenuto in Italia nel recente passato, al fine di individuare quale delle due “terapie” abbia dimostrato maggiore efficacia. Il nostro paese, però, non è un’unità omogenea dal punto di vista demografico, ma piuttosto un insieme di tante realtà differenti: consideriamo allora, con dati Istat, la dinamica del periodo compreso tra il 2001 e il 2009 nelle 103 province tradizionalmente esistenti (escludendo, per mancanza di dati, 4 le province rese operative nel 2005 e le 3 rese operative nel 2009). L’indice di invecchiamento più consono all’obiettivo è apparso l’età media della popolazione[1]. Inoltre, per tenere conto della situazione di partenza dei vari fenomeni osservati e per rendere comparabili le loro differenti “unità di misura” (tassi di fecondità totale, incidenza degli stranieri sulla popolazione residente, ecc.), si è fatto riferimento alla variazione relativa di ogni indicatore usato. Come primo passo, si sono osservati singolarmente i tre processi demografici: età media, fecondità, saldo migratorio con l’estero. Le variazioni relative dell’età media nel periodo osservato contrappongono le province meridionali e sarde, con incrementi anche del 7%, a quelle centro-settentrionali, con valori pressoché stabili. Sul “fronte” delle nascite, le diminuzioni del tasso di fecondità totale sono state modeste, e concentrate in 13 province meridionali, e gli incrementi notevoli (fino al 50%, nel centro-nord). La dinamica dell’incidenza di stranieri ha mostrato invece una estrema eterogeneità territoriale: alcune regioni comprendono sia province tra le più vivaci nel richiamare stranieri, sia province tra le meno attrattive. Questo è il caso del Veneto (Vicenza “versus” Venezia e Rovigo) e della Sicilia (Palermo, Messina e Trapani “versus” Enna). Il secondo passo è consistito in un’analisi bivariata: che correlazione si può osservare tra l’invecchiamento, da una parte, e la bassa fecondità (o, in alternativa, l’immigrazione) dall’altra? Qui non sono emerse relazioni nette, anche a causa dell’azione di ulteriori fattori che hanno influito sulla struttura per età della popolazione.
Metodi complessi, “figurine semplici”
Come fare per individuare questi fattori e includerli nell’osservazione? La risposta sta nell’applicare un metodo di analisi un po’ più sofisticato (ACP – Analisi in Componenti Principali), in grado di considerare anche le altre variabili in gioco: la dinamica della sopravvivenza (in continuo incremento e più elevata per le donne), le migrazioni interne interprovinciali e interregionali (che portano popolazione nelle prime età attive dal sud al nord della penisola), la riproduttività degli stranieri (generalmente più elevata di quella degli autoctoni) e la struttura per età di questi ultimi (decisamente più giovane di quella dei residenti).In questo modo è stato possibile sintetizzare tutte le variabili in quattro componenti.Di queste, le due principali corrispondono rispettivamente: a) all’andamento della fecondità, contrapposto a quello dell’invecchiamento e b) all’evoluzione dell’incidenza degli immigrati (sia nella popolazione, sia tra le nascite). La figura 1 mostra la proiezione dei punti che rappresentano ciascuna provincia nel piano fattoriale ottenuto dalla combinazione di tali componenti. Il primo quadrante (in alto a destra) rappresenta le province, soprattutto settentrionali, caratterizzate sia da un aumento della fecondità (e quindi da una diminuzione dell’età media), sia da un aumento della incidenza di stranieri e nati stranieri; procedendo in senso orario, il secondo quadrante si accomuna al primo per le variazioni positive dei tassi di fecondità, ma si discosta per minori variazioni di stranieri, comprendendo province principalmente centrali; il terzo quadrante è composto da aree prevalentemente meridionali e insulari che hanno vissuto una dinamica naturale e migratoria stagnante; infine fanno capo al quarto quadrante alcune province generalmente meridionali e insulari caratterizzate da bassa fecondità e maggiore aumento della proporzione di adulti e nascite straniere.
Misuriamo cause e effetti
Aver “complicato” la situazione ha quindi permesso di confermare la presenza di una diffusa eterogeneità nei comportamenti provinciali, solo parzialmente schematizzabili nella tradizionale dicotomia tra centro-nord e Mezzogiorno. Tornando dal “particolare” al “generale”, resta da compiere un ulteriore passo: tentare di sintetizzare le determinanti dell’evoluzione descritta, nell’intento distinguere “l’antidoto” più efficace all’invecchiamento nel complesso delle province osservate. Cosa mostrano risultati ottenuti? La figura 2 (che rappresenta i principali risultati di un modello di regressione lineare la cui variabile dipendente è costituita dalle variazioni assolute dell’età media nel periodo osservato) evidenzia innanzitutto la significatività di entrambe le determinanti inerenti la fecondità delle donne italiane: le province in cui l’aumento dell’età media è stato minore (o non si è verificato) sono proprio quelle nelle quali la propensione delle autoctone verso la riproduttività è stata maggiore, sia all’inizio dell’intervallo esaminato, sia durante gli anni successivi. L’effetto dell’incidenza di immigrati nel 2001 e della dinamica della presenza straniera si rivela, invece, molto limitato e decisamente inferiore rispetto a quello prodotto dalla fecondità. In questo contesto, le migrazioni interne, rappresentate sia dai livelli registrati all’inizio dell’intervallo analizzato, sia dall’evoluzione rilevata fino al 2009 risultano aver svolto un efficace effetto “antiaging”, più intenso di quello esercitato dai livelli di invecchiamento rilevati all’inizio dell’intervallo in esame. Infine, poco efficace o non significativo appare il ruolo svolto dalla proporzione di nati stranieri sui nati italiani, dalla speranza di vita maschile e femminile e dall’età media degli stranieri. In conclusione, e per tornare alla domanda iniziale, sembra plausibile affermare che l’immigrazione ha, nel recente passato, contribuito al ringiovanimento (o, meglio, al minor invecchiamento) della popolazione, ma non è stata la variabile più importante : è anch’essa una parte della soluzione, sì, ma da sola non appare sufficiente.
Per saperne di più
Paterno Anna (2011) “Is immigration the solution to population aging?”, Genus, 67(3): 65-82.