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Identità culturale e occupabilità degli immigrati in Italia

Attraverso i dati dell’Indagine Istat su “Condizione e integrazione sociale dei cittadini stranieri”, Alessio Buonomo, Stefania Capecchi, Francesca Di Iorio e Salvatore Strozza mostrano l’associazione tra identità culturale e probabilità di essere occupati, segnalando come per gli immigrati la doppia appartenenza alla cultura di origine e a quella italiana (integrati) rappresenti la condizione più favorevole, in tal modo smentendo alcuni luoghi comuni. 

L’importanza dell’identità nelle crisi economiche

Che cosa favorisce, o ostacola, l’accesso al lavoro per chi ha origini migratorie? La domanda è centrale, soprattutto nei periodi di crisi economica, quando le opportunità scarseggiano e i gruppi più vulnerabili rischiano di restare ai margini. Tra i tanti fattori analizzati negli studi sull’occupazione degli immigrati (come l’età, il genere, l’istruzione o gli anni di permanenza nel Paese) un aspetto ha ricevuto finora poca attenzione: l’identità culturale, in altre parole il modo in cui le persone si identificano rispetto al paese di origine e a quello di destinazione.
È quindi particolarmente interessante analizzare quale ruolo giochi l’identità culturale sulla probabilità di essere occupati. A tal fine, abbiamo utilizzato i dati Istat su “Condizione e Integrazione Sociale dei Cittadini Stranieri” rappresentativi della popolazione straniera in Italia raccolti nel biennio 2011-2012, nel pieno della grande recessione che ha colpito il Paese.

Un approccio multidimensionale: l’Ethnosizer

Per comprendere l’identità culturale delle persone con background migratorio chiedere “come si sentono” potrebbe non bastare. L’identificazione soggettiva è importante, ma rischia di essere influenzata da desideri di conformità (le persone tendono a fornire risposte allineate a ciò che ritengono socialmente più accettabile o desiderabile) o da interpretazioni personali. Per superare questi limiti, ci siamo ispirati all’“Ethnosizer”, un indicatore multidimensionale proposto da Constant, Gataullina e Zimmermann (2009), che combina auto-percezioni con comportamenti osservabili.
Nel nostro studio abbiamo adattato l’Ethnosizer alle specificità italiane, considerando le cinque dimensioni originali proposte dagli autori: (1) conoscenza della lingua, (2) uso di media, (3) senso di appartenenza, (4) reti sociali e (5) intenzioni migratorie. Per ciascuna dimensione, abbiamo valutato la forza dell’identificazione sia con il Paese di origine (minority identity) sia con quello di destinazione (majority identity).

Questa metodologia ha consentito di distinguere quattro profili (Tabella 1):

1) Integrati: forte legame sia con il Paese d’origine sia con l’Italia;

2) Assimilati: forte identificazione con l’Italia, ma debole con il Paese d’origine;

3) Separati: forte attaccamento al Paese d’origine, ma scarso legame con l’Italia;

4) Marginalizzati: debole identificazione con entrambe le culture.

 I risultati: l’identità integrata è la più vantaggiosa

Le analisi, condotte attraverso modelli Probit e basate su un campione ampio e rappresentativo della popolazione straniera in Italia, mostrano in modo netto che l’identità culturale è significativamente associata alla probabilità di essere occupati (Figura 1). In particolare, rispetto agli immigrati assimilati (cioè coloro che si identificano fortemente con l’Italia ma hanno un debole legame con il proprio Paese d’origine), gli integrati (coloro che mantengono una forte identificazione sia con l’Italia sia con il Paese di origine) presentano una probabilità sensibilmente più alta di essere occupati. Questa configurazione identitaria risulta dunque la più vantaggiosa, suggerendo che la doppia appartenenza culturale sia associata a esiti più favorevoli nell’inserimento nel mercato del lavoro.
All’estremo opposto si collocano i marginalizzati, cioè coloro che mostrano una scarsa identificazione con entrambe le culture: per loro la probabilità di essere occupati risulta significativamente più bassa. Anche i separati, che mantengono un forte legame con il Paese d’origine ma non con quello di destinazione, si trovano in posizione svantaggiata rispetto agli assimilati, sebbene in misura meno marcata dei marginalizzati. Questi effetti risultano statisticamente significativi.
L’associazione tra identità culturale e occupazione resta robusta anche al controllo per numerose caratteristiche individuali e familiari, come età, livello di istruzione, area geografica di origine, anni trascorsi in Italia, condizione coniugale e numero di figli (Figura 1). 

Un risultato particolarmente rilevante riguarda il ruolo dell’identità d’origine, spesso percepita come un ostacolo all’integrazione. Le analisi dimostrano invece che non esiste alcun effetto negativo associato al mantenimento di una forte identità legata al Paese di origine, a condizione che essa sia accompagnata da un’identificazione altrettanto solida con la società italiana. La condizione migliore è rappresentata dall’acquisizione di una doppia identità culturale, cioè il mantenimento di un forte legame con il Paese di origine e, al tempo stesso, una solida identificazione con la società italiana.

Differenze territoriali e di genere

Ulteriori analisi hanno messo in luce che il ruolo positivo giocato dall’identità integrata è più marcato nel Nord Italia, dove il mercato del lavoro è più formale e strutturato. Al Sud, invece, dove è maggiore il peso del lavoro informale e delle reti etniche, anche l’identità separata può talvolta essere positivamente associata all’accesso all’occupazione (anche più di quella italiana).
Le differenze di genere sono altrettanto rilevanti. L’identità integrata ha un impatto più forte sulle donne, verosimilmente perché i loro percorsi lavorativi (spesso nel lavoro domestico o di cura) richiedono fiducia da parte delle famiglie italiane e allo stesso tempo l’accesso alle reti migranti. Per gli uomini, invece, è emerso che le identità separate o marginalizzate giocano un ruolo particolarmente svantaggioso.

Promuovere il doppio legame?

È importante sottolineare che i risultati di questo studio descrivono associazioni statistiche, e non relazioni di causa-effetto. Pur osservando che determinati profili identitari sono sistematicamente associati a una maggiore (o minore) probabilità di occupazione, non possiamo escludere la presenza di meccanismi bidirezionali: ad esempio, il fatto di essere occupati potrebbe a sua volta rafforzare il senso di appartenenza alla società ospitante o attenuare forme di marginalizzazione. L’assenza di dati longitudinali o di strumenti di controllo specifici limita la possibilità di identificare con certezza un nesso causale.
Questi risultati, tuttavia, hanno implicazioni concrete. In un contesto sociale e politico dove spesso si contrappongono “integrazione” e “radici culturali”, i dati ci dicono che non bisogna scegliere tra le due. Al contrario, la combinazione di appartenenza culturale al Paese di origine e identificazione con la società italiana rappresenta la configurazione più vantaggiosa in termini occupazionali. Pertanto, le politiche di integrazione non dovrebbero temere la conservazione delle culture d’origine. L’obiettivo deve essere la promozione di una doppia appartenenza, che consenta agli individui di muoversi con facilità tra più mondi culturali. Questa configurazione si associa a maggiori livelli di inclusione occupazionale e valorizza il potenziale delle persone con background migratorio.

Per approfondire

Buonomo, A., Capecchi, S., Di Iorio, F., & Strozza S. (2025). Does cultural identity influence the probability of employment during economic crises? Journal of Population Economics, 38(61) https://doi.org/10.1007/s00148-025-01116-0

Constant, A. F., Gataullina, L., & Zimmermann, K. F. (2009). Ethnosizing immigrants. Journal of Economic Behavior & Organization, 69(3), 274–287. https://doi.org/10.1016/j.jebo.2008.10.005

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