Si valuta che nel mondo siano circa un miliardo le persone che sono sprovviste di un’ identità ufficialmente riconosciuta e comprovata. Argomenta Massimo Livi Bacci che la mancanza di identità è un fattore di esclusione sociale, che colpisce soprattutto i paesi più poveri dell’Africa sub-sahariana e dell’Asia meridionale, e costituisce un freno allo sviluppo delle comunità più disagiate.
Sono un miliardo, nel mondo, le persone che sono sprovviste di una identità ufficialmente riconosciuta e comprovata. Eppure, fin dalla nascita delle prime embrionali società organizzate, si è posta l’esigenza di riconoscere e attestare l’identità individuale: utile negli scambi, nel commercio, negli spostamenti, negli atti ufficiali, nei rapporti giuridici e economici tra persone. Si trovano tracce, nell’antichità, dei molteplici modi in cui si è tentato di risolvere il problema di “chi è chi”, con segni, sigilli, iscrizioni, scritture, pergamene, che attestavano l’identità o la titolarità di una funzione o di un diritto. In Europa, dal tardo medioevo, si moltiplicano gli atti giuridici, i registri, le scritture amministrative e si rafforza la necessità di conoscere e verificare l’identità delle persone. Nel Settecento i viaggiatori di norma dovevano essere muniti di qualche tipo di certificazione identitaria; nel 1792, in Francia, si introduce il sistema di registrazione dello stato civile; nell’Ottocento si standardizzano i passaporti e si inizia l’utilizzo della fotografia per l’identificazione delle persone; nel Novecento si generalizza l’uso della carta d’identità, o di altri analoghi strumenti di riconoscimento. Però, ancor oggi, secondo le indagini della Banca Mondiale, ci sono circa mille milioni di persone – la metà nell’Africa sub-sahariana, un terzo nell’Asia meridionale – senza una prova ufficiale di identità.
Un requisito indispensabile
Nelle società contemporanee è oramai impensabile che una persona sia sprovvista di una identità accertata e riconosciuta. I cani di razza hanno un pedigree, gli animali domestici un chip di identificazione, i veicoli hanno la targa e un numero inciso sul telaio, i cellulari una matricola, un pezzo di carne o un limone acquistati in un supermercato devono esibire origine e filiera produttiva. Un settimo dell’umanità, tuttavia, non ha identità accertata o ne è del tutto sprovvista. Chi non possiede un’identità documentata è tagliato fuori dalla società moderna, può solo lavorare al nero, rischia lo sfruttamento, è escluso dalle attività formali, vive, insomma ai margini o nei recessi della società. Una vita normale è, forse, possibile in società molto arretrate, sparsamente insediate, con un’economia di sussistenza, oramai sempre più ridotte e circoscritte. Altrove il deficit identitario significa esclusione e vulnerabilità.
Il caso dell’India
Il caso dell’India è del più grande interesse. Qui non esisteva un sistema completo, standardizzato ed efficiente di identificazione, che restava in capo alle singole amministrazioni degli stati federati, o alle comunità locali. In India, poi, lo stato eroga, con una burocrazia invadente e inefficiente, l’equivalente di decine di miliardi di euro in benefici sociali di ogni tipo, vende a varie categorie di persone beni con prezzi sussidiati e raziona alcuni beni di base. Un sistema inefficiente e iniquo, soggetto a sprechi e corruzione, che esclude ingiustamente molti aventi diritto, e beneficia altrettanto ingiustamente altri. Nel 2009 la Commissione del Piano creò lo Uidai (Unique Identification Authority of India), chiamò a dirigerlo Nandan Nilekani, un tycoon dell’informatica; nel 2010, su base volontaria, si iniziò l’identificazione della popolazione mediante un numero di dodici cifre, nome e cognome, genere, data di nascita, scan delle iridi e delle impronte digitali (il sistema si chiama Aadhaar, che significa “fondazione”). Nel 2016 Uidai è divenuto organo di governo, il suo capo ha il rango di Ministro, l’identificazione da facoltativa è diventata obbligatoria. Se si pensa che in Italia la Cie (carta di identità elettronica), introdotta nel 2004, è posseduta dopo 15 anni, da 9 milioni di persone, desterà meraviglia che l’Aadhaar sia stata attribuita, in meno di 9 anni – dalla fine del 2010 ad oggi – a 1.239 milioni di persone, con una copertura del 90% della popolazione. Il possesso del codice Aadhaar permette, oggi, il rapido conseguimento dei benefici pensionistici, il godimento di altri benefici sociali, l’accesso alle mense scolastiche, l’apertura di un conto in banca, l’attribuzione di una SIM, l’acquisto di fertilizzanti o di combustibile. Atti o attività che prima esigevano il possesso di una gravosa documentazione e che erano fonte di sprechi e ingiustizie, sono adesso sveltiti e semplificati. Il sistema ha ricevuto molte critiche, per la possibile intrusione nella privacy, per l’eventuale vulnerabilità ad attacchi informatici, per l’eccessiva estensione delle attività che richiedono il possesso del codice identificativo. D’altro canto l’identificazione pronta e efficiente dell’intera popolazione – destinata a diventare la più numerosa al mondo tra meno di dieci anni – è sicuramente strumento di progresso sociale.
Geografia della “povertà identitaria”
Nella pletora degli Obbiettivi dello Sviluppo Sostenibile, non poteva mancare l’incitamento agli Stati (lo troviamo come “target”, o bersaglio, al numero 16.9) “a fornire una identità legale a tutti, inclusa la registrazione delle nascite entro il 2030”. A prescindere dal linguaggio zoppicante, l’invito è sacrosanto, alla luce di quel miliardo di persone la cui identità non è conosciuta e non è legalmente verificata. Ma dove origina questo numero impressionante? Origina dalla banca dati della Banca Mondiale (ID4D, acronimo di Identification for Development, www.id4d.worldbank.org ) che valuta, per i vari paesi del mondo, il numero della popolazione “sprovvista di una prova di identità”. Una prova legale, riconosciuta e verificabile. Si tratta di una stima assai difficile, sia per la varietà delle norme prevalenti in ciascuno stato circa il riconoscimento dell’identità, sia per la varietà delle informazioni e delle statistiche disponibili (amministrative, censuarie, d’inchiesta ecc.). Le Figure 1-3 illustrano l’articolazione geografica della assenza di identità comprovata. I due paesi che capeggiano la graduatoria secondo il numero di coloro che sono carenti di identità (Figura 1) sono l’India e la Nigeria (300 milioni), seguite da Pakistan, Etiopia e Bangladesh (200 milioni), e altri 10 paesi, dal Congo al Sud Africa (200 milioni). La graduatoria dei paesi secondo la percentuale delle persone a identità carente (Figura 2) vede in testa Somalia, Nigeria e Eritrea con oltre il 70% della popolazione totale, seguite da otto paesi (dall’Etiopia allo Yemen) con oltre il 50%. Infine l’incidenza della carenza identitaria è maggiore nel quintile più povero, e minore nel quintile più ricco della popolazione, e questo avviene nei paesi a basso reddito come nei paesi a reddito medio alto (Figura 3). Classificando i paesi secondo la categoria di reddito, la carenza identitaria è massima (37%) in quelli a basso reddito, e via via inferiore per quelli a reddito medio-basso (20%), medio alto (2%,) e alto (1%).
Identità e esclusione
Se la mancanza d’identità comprovata è un problema – sia perché è un freno allo sviluppo della collettività, sia perché è un fattore di esclusione degli individui – ebbene, questo problema riguarda i più poveri, e i paesi dell’Africa sub-sahariana e dell’Asia meridionale dove però, grazie a Aadhaar, i progressi sono più rapidi. L’evoluzione del mondo non consente l’incognito; l’identità è connessa con la titolarità dei diritti individuali, rende i rapporti tra le persone più agevoli, facilita la vita sociale. Quando un paese riconosce o attribuisce un’identità certa a una persona è come se affermasse “tu esisti”, fai parte della società, con i diritti che essa offre e le responsabilità che ne conseguono.
Fonti
Fonte figure 1 – 2 – 3 : ID4D Global Dataset 2018,