Come uscire dalla crisi del Welfare? Certamente non esiste una risposta univoca: occorrerà una lenta politica di molti piccoli passi, che avrebbero però senso solo (o soprattutto) se inquadrati all’interno di un disegno coerente e di lungo respiro. Gustavo De Santis prova a tracciare alcune grandi direttrici lungo cui ci si potrebbe muovere.
Ho elencato, in un precedente articolo, quelli che a me paiono i cinque principali motivi di crisi dello stato sociale. Ma sono anche in grado di individuare vie d’uscita? No, a dire il vero, o almeno non completamente. Ma forse qualche indicazione di massima si può dare.
Per farlo, ripartiamo dalle origini. Il concetto di welfare non è sempre esistito: anzi, è piuttosto recente. E’ nato in Gran Bretagna, in piena seconda guerra mondiale, sull’onda di due Rapporti di commissioni parlamentari, presiedute dal futuro “sir” William Beveridge (fatto baronetto nel 1945). Lo scopo era, per l’immediato, “fidelizzare” la popolazione inglese alla democrazia e consolarla delle durezze della guerra (il warfare); nel più lungo periodo, costruire uno stato sociale che si prendesse cura del benessere dei cittadini, li rendesse più felici e evitasse quindi, dopo la conclusione del conflitto, lo scoppio di una terza guerra mondiale.
Tentativo alto e nobile, tanto più se si pensa al luogo e al periodo in cui fu concepito (l’Inghilterra sì che rischiava l’invasione, in quegli anni: non di fantomatici immigrati, ma di concretissimi nazisti). E l’esperimento è sostanzialmente riuscito, fino a oggi (prima dell’avvento dei sovranisti, intendo). Ma l’ardita costruzione si basava su un presupposto che sembriamo avere un po’ tutti dimenticato, e che vale la pena riprendere direttamente dalle parole del Rapporto del 1942:
Il piano di sicurezza sociale è diretto ad assicurare che ogni individuo, a condizione che lavori fin tanto che può, e che versi contributi detraendoli dai suoi guadagni, abbia un reddito sufficiente per assicurare a sé ed alla propria famiglia una sana sussistenza, un reddito che lo sollevi dal bisogno al momento in cui per qualsivoglia ragione egli non possa lavorare e guadagnare. Oltre al reddito di sussistenza, la relazione propone sussidi per l’infanzia in modo da assicurare che nessun bambino debba mai trovarsi in condizione di bisogno, e ogni specie di assistenza sanitaria per tutte le persone in caso di malattia, senza alcun pagamento all’atto della prestazione dell’assistenza stessa così da evitare che alcuno debba soffrire perché non ha i mezzi necessari per pagare il medico o l’ospedale. [Evidenziazione dell’autore.]
Siamo, insomma, molto vicini al kennediano: “Non chiederti cosa la nazione può fare per te. Chiediti piuttosto cosa puoi tu fare per lei”. Ed è forse da qui che bisogna ripartire per sperare di salvare il salvabile.
Un futuro incerto
Teniamo intanto presente che i cinque motivi di crisi del welfare elencati nel mio precedente articolo non sono evaporati nel nulla – anzi. E poi ricordiamo che il welfare in parte sottintende un certo tipo di società, e in parte lo modella. E in una società che sta cambiando, e che si vorrebbe anche far cambiare in una certa direzione, il welfare dovrebbe evolversi. Ma come farlo, in un contesto in cui il senso del bene comune sembra essersi smarrito?
Sembra poi impossibile proporre modifiche di welfare che prescindano dai giudizi e dagli orientamenti di valore personali: basti pensare al concetto di famiglia, ad esempio, e alle sue sfaccettature, poche (secondo i tradizionalisti) o tante (nella visione “moderna”). Un welfare che protegge la famiglia, chi protegge veramente, e chi esclude? Questo è solo un esempio, per rimarcare che tutto quel che segue va preso con le molle: riflette solo le mie preferenze, ed è comunque solo accennato, anche per miei limiti evidenti.
Per quanto riguarda la riforma previdenziale abbiamo già fatto molto e nella giusta direzione. Persino su questo fronte però potremmo muovere qualche altro passo, soprattutto in termini di coerenza – a cominciare dall’onore che dovremmo rendere a chi, a cominciare da Dini e Fornero, ha avuto il coraggio di intervenire per fermare l’emorragia e correggere gran parte delle distorsioni ereditate dalle sconsiderate scelte del passato. Tra i vari punti ancora aperti segnalo questo: non sarebbe il caso di abolire (gradualmente, beninteso) le pensioni di reversibilità? Esse sottendono un’idea di famiglia che non esiste più (un matrimonio che dura tutta la vita, con la donna a casa e l’uomo al lavoro), sono fonte di considerevoli complicazioni (pensate al lavoratore che divorzia, si risposa e poi muore: a quale delle due mogli dovrebbe andare la reversibilità?) e sono fondamentalmente ingiuste, perché, prelevando gli stessi contributi, trattano in modo diverso il lavoratore celibe, quello sposato con donna (più o meno) della sua età e quello sposato con donna giovane.
Vogliamo sostenere le famiglie con figli, e forse anche stimolare la nostra bassissima fecondità? Il modello che si è dimostrato migliore è quello dell’Europa del nord: non (tanto) soldi (beh, sì, anche quelli), quanto servizi di custodia, che anche alle mamme con bambini piccoli consentano di lavorare (magari proprio in quei servizi) e quindi partecipare di più alla vita produttiva del paese (diciamo meglio: alla parte formalmente riconosciuta come tale), acquisendo status e diritti propri, di lavoratrici, titolari di pensioni, ecc. Per giunta, anche lo sviluppo dei bambini affidati a nidi e asili sembra migliore rispetto a quello di chi rimane in famiglia: in contatto con propri simili, e non con i nonni, i ragazzi hanno più stimoli, socializzano in fretta e imparano di più, e prima (per esempio, a parlare e a leggere).
Il modello italiano di assistenza agli anziani in casa, con badanti spesso irregolari, non è molto efficiente: è vero che ognuno preferisce continuare a vivere in casa propria (oltretutto, tradizionalmente vicino a figli e parenti), ma oltre una certa soglia di non autosufficienza sarebbe probabilmente preferibile un modello diverso, con residenze semi-collettive (stanze individuali, ma spazi comuni), e personale con maggiore specializzazione, e in grado di accudire contemporaneamente più persone. Attualmente queste strutture, che pure esistono, sono molto costose e generalmente circondate da discredito, anche per i casi estremi che la cronaca talvolta ci segnala, di degrado e sfruttamento. Ma in una società in cui la famiglia tradizionale va scomparendo, in cui i figli sono pochi, spesso lontani, o impegnati, o anziani e acciaccati loro stessi, e in cui le mogli casalinghe e pronte a rispondere a ogni esigenza familiare sono ormai una rarità, non si vedono all’orizzonte molte alternative.
Molte altre sono le questioni aperte, ma su queste confesserò che non ho affatto le idee chiare. Che, ad esempio, vadano arginate la disoccupazione giovanile, la “fuga dei cervelli” all’estero (cioè, l’emigrazione dei nostri giovani più qualificati) e il fenomeno dei “neet” (giovani inoperosi e neppure alla ricerca di una possibilità, di studio o di lavoro) siamo tutti d’accordo. Come ottenerlo, però, non è chiaro – e non pare tanto un problema di welfare, quando di mercato del lavoro (e di costo del lavoro, per ridurre il quale bisognerebbe però abbassare il prelievo contributivo, e quindi ulteriormente intervenire al ribasso sulle pensioni).
Il problema forse più grave, nel medio-lungo termine, è probabilmente quello della sanità: l’allungamento della durata della vita, soprattutto nelle età anziane che sono proprio quelle che più costano, e l’aumento dei costi unitari di trattamento (determinato dalla continua “ricerca del meglio”, da parte della medicina e anche dei singoli) formano un mix potenzialmente esplosivo. Il modello americano, delle assicurazioni individuali sembra la strada peggiore: costi maggiori, e maggiore disparità di trattamento tra individui, con risultati medi inferiori a quelli del modello europeo. Ma anche il modello italiano (beveridgeano, come avrete forse notato dalla citazione iniziale), della copertura universale e gratuita, è entrato in crisi: i costi sono alti, la domanda crescente, il rischio di abusi sempre dietro l’angolo. E tuttavia va difeso, con le unghie e coi denti, prendendo esempio dalle non poche regioni, in Italia, che riescono ancora a garantire servizi considerati eccellenti, con tempi di attesa ragionevoli, costi accettabili e buoni esiti. Qui, il problema maggiore, al momento, appare quello della forte disparità territoriale in termini di qualità e efficienza dei servizi, e di come far sì che le nostre regioni più virtuose diventino uno standard nazionale, il che significa sposare la scuola dei confronti sistematici, delle comparazioni quantitative, della valutazione delle prestazioni basata sui dati, e non sui proclami. Difficile, in una società che crede ai “no Vax”, alle minacce di invasione degli immigrati, e, in generale, a chi urla di più.