Lo Stato Sociale è da tempo in crisi, non solo in Italia, e la necessità di una sua riforma è invocata spesso e quasi universalmente. Il che è probabilmente vero, ma prima di agire converrebbe fermarsi un attimo a riflettere sulle cause della sua crisi. Gustavo De Santis ne individua cinque. Condividete la sua analisi?
A sentire i nostri governanti attuali, i problemi italiani hanno due sole cause: l’invasione degli immigrati e le “assurde” regole imposte dall’UE, senza le quali potremmo fare grandi passi in avanti (il che, per un paese sull’orlo del precipizio, non è precisamente auspicabile).
Nessun dato oggettivo conforta questa versione dei fatti, ma la cosa non turba né chi ci guida urlando, tuittando e feisbuccando, né la maggioranza, apparentemente contenta del messaggio e anche del suo medium.
Consapevole di parlare alla minoranza del paese, tratto qui di un problema che temo resterà e anzi si accentuerà anche dopo che gli strepiti attuali saranno finiti (e dopo che, per la seconda volta in meno di un secolo, tutti negheranno di essersi mai fatti attirare dalle sirene dell’autarchia, del razzismo e della risposta facile e muscolare a qualunque problema complesso): la crisi dello stato sociale.
Perché lo stato sociale è in crisi, e cosa si può fare per salvarlo? In questo primo articolo tratto delle cause della crisi. In un secondo articolo, affronterò poi, ma con molta meno sicurezza, come vedrete, la questione dei possibili rimedi.
Quanto alle cause, ne individuo cinque, collegate tra di loro. Per trattarle, attingo a piene mani dal database di Eurostat, soprattutto dalla sezione “Population and social conditions / social protection” – nel caso chi non la pensa come me volesse andare a verificare i numeri. Per “Europa”, salvo diversa definizione, intendo l’Europa a 27 stati (EU27). I dati sono sempre quelli più recenti disponibili a oggi (agosto 2018).
Cause della crisi 1) Ma quanto mi costi?
Il welfare state è un lusso che costa caro. In Italia, la “spesa sociale”, trascurabile fino alla seconda guerra mondiale, aveva già raggiunto il 17% del Pil nel 1990, ed è oggi (2016) quasi al 30%, leggermente superiore a quella del resto dell’Europa (28,6%). Chi paga? I cittadini, con le tasse, la cui incidenza sul Pil è da noi arrivata al 43% (40% in Europa), un livello unanimemente considerato troppo alto. Eppure tutti i governi, nell’intento di alleggerire la pressione fiscale (e scaricarla sulle future generazioni, che tanto non votano e non possono protestare) hanno accumulato debiti, e l’Italia, tanto per non smentirsi, con il suo debito al 130% del Pil, ha nettamente superato la non invidiabile media Europea (80%), che, a sua volta, è superiore agli obiettivi (com)unitari a suo tempo concordati, “non oltre il 60%”.
Non ci vogliono grandi economisti per calcolare che un debito al 130% del Pil, con interessi al 3% circa, si mangia ogni anno, solo di interessi, circa il 4% circa del nostro Pil. Insomma: abbiamo un deficit corrente del 2,3% circa, a proposito del quale si litiga con Bruxelles perché non ci permette di sfondare il muro del 3%, ce la prendiamo con banchieri e speculatori quando cresce lo spread (cioè, quando qualcuno mette in dubbio la nostra capacità di ripagare i debiti), ma proprio a questi banchieri e speculatori, ogni anno, regaliamo il 4% del nostro Pil, senza battere ciglio. Eppure si tratta di cifre enormi (circa 68 miliardi di euro nel 2017- circa 140 ponti di Genova, per avere un ordine di grandezza), tanto più pesanti sulle nostre tasche in quanto siamo in un contesto di crescita economica molto vicina allo zero, anche per effetto della decrescita demografica. Se questi fossero i conti di casa nostra, nel senso di “famiglia”, probabilmente non ci dormiremmo la notte. Ma poiché invece sono i conti di casa nostra, nel senso di Paese, … che ce ne importa a noi? Qualcuno pagherà, e le elezioni, tanto, le vince chi promette di più: flat tax, via la Fornero, reddito di cittadinanza, abbattimento del cuneo fiscale, …
Cause della crisi 2) Tutto ci è dovuto?
La seconda ragione che mi pare di poter individuare tra le cause della crisi del welfare è la crescita delle aspettative in parallelo con i servizi offerti. Tutti quanti ormai (e io per primo, sia ben chiaro) diamo per scontato che ospedali e pensioni ci siano dovuti, che la scuola debba essere gratuita e sotto casa, che l’alloggio sia un diritto, … Tutti obiettivi che costituivano un sogno, il coronamento di una fortunata vita di lavoro per la generazione dei nostri nonni, ma che oggi quasi non notiamo più, se non per criticare (e la cui mancanza, secondo alcuni pessimisti, dolorosamente sentiremo domani). Questa assuefazione è uno degli elementi che spiega il paradosso della felicità di Easterlin. I soldi, di per sé, non rendono felici: però se puoi comprarci beni e servizi (oppure se questi servizi li ricevi dallo stato, che è ricco e può permetterselo), beh, allora sì, la tua visione della vita dovrebbe migliorare. Ma la verifica empirica di questa aspettativa è spesso contraddetta dai fatti: i (pur contestabili) tentativi di misurare in modo comparabile la soddisfazione verso la vita (in generale, o verso aspetti specifici) rivelano una scarsa correlazione con indicatori oggettivi, quali ad esempio il reddito pro-capite o la durata della vita – soprattutto su scala internazionale. L’Italia è comunque, anche su questo fronte, sistematicamente al di sotto della media europea: ad es., su una scala da 0 a 10, in termini di soddisfazione verso la vita (in generale), nel 2013, ultimo anno disponibile, noi eravamo a 6,7 e l’Europa a 7; in termini di soddisfazione per la situazione economica, noi a 5,7 e l’Europa a 6,0; ecc.
Cause della crisi 3) La “questione morale”
Il terzo motivo che mi pare di poter indicare tra le cause di crisi dello stato sociale è legato al “moral hazard”. Chi ci garantisce che ognuno di noi non cerchi di sfruttare indebitamente l’esistenza del welfare state? Ad esempio, che cerchi attivamente lavoro, senza puntare al sussidio di disoccupazione o alla pensione anticipata; che non si finga infortunato quando ha magari solo un piccolo acciacco, e via dicendo?
L’esigenza di distinguere tra bisognosi veri e finti, beninteso, è sempre stata presente, soprattutto nel mondo anglosassone, dove le leggi a protezione dei poveri, già dalla fine del 16° secolo, imponevano umilianti condizioni di vita e di lavoro (forzato) ai “beneficiari”, con l’esplicito fine di scoraggiarli dal ricorrere a questo dispositivo. Oggi si parla più pudicamente di “prova dei mezzi” (bisogna dimostrare di essere bisognoso), di workfare (bisogna dimostrarsi attivi nella ricerca del lavoro, se si vogliono sussidi di disoccupazione), di stato assistenziale (spregiativo) per umiliare chi vi fa ricorso e quindi dissuadere i potenziali utilizzatori, ma il principio è lo stesso: abbiamo paura degli approfittatori (free riders – in inglese suona meglio). E, purtroppo, abbiamo spesso fondati motivi per diffidare della moralità (degli altri, beninteso).
Cause della crisi 4) La mobilità territoriale (internazionale)
L’esistenza di una rete formale di protezione sociale richiede l’adozione di una lunga serie di definizioni: proteggere da cosa, come, e chi. Concentriamoci sul “chi”. In una società immobile, la soluzione è semplice: sono i residenti di un certo territorio (per esempio, la Lombardia), con i loro doveri (pagare tasse e contributi) e i loro diritti (servizi). Anche il controllo sociale è più facile in questo caso, e minore il numero degli approfittatori. Ma con la mobilità territoriale il problema si complica, e tanto più se i movimenti sono forti e se avvengono in fasi specifiche della vita. Ammettiamo, per semplicità, che il welfare vada a vantaggio solo di giovani e anziani, e che a pagare siano solo gli adulti (e non siamo poi troppo lontani dal vero). Ammettiamo poi (e qui deliberatamente esagero) che la Lombardia attiri gli adulti (ci sono opportunità di lavoro), ma scoraggi la presenza di giovani e anziani (ritmi frenetici, prezzi elevati, scarsa qualità della vita, ecc.). Ebbene, in questo scenario la Lombardia raccoglie tanto in tasse e contributi ma paga poco in servizi di welfare, perché a pagare saranno le altre regioni d’Italia, quelle dove risiedono giovani e anziani. Ora, finché la mobilità è nazionale, e finché esiste un’autorità nazionale (lo stato) che impone trasferimenti dalla Lombardia verso il resto del Paese, il problema è risolvibile, pur se può generare qualche tensione politica. Ma se la mobilità è internazionale? Il problema è già abbastanza serio all’interno di aree più o meno ugualmente sviluppate che hanno stipulato appositi accordi tra di loro (ad esempio, in Europa), ma diventa veramente complicato quando la mobilità è su scala internazionale, tra paesi lontani, e non solo geograficamente.
Vale la pena aggiungere che, di norma, i paesi che ricevono migranti ne traggono un vantaggio, perché i migranti arrivano in età da lavoro, e spesso se ne tornano via quando sono anziani, e sono inoltre selezionati, e quindi sani, e anche per questo, oltre che per le scarse conoscenze del sistema, sfruttano poco il welfare per cui invece pagano. In definitiva, siamo noi, paesi ricchi, a derubare loro, gli immigrati, e questo avviene anche in Italia, come dimostrano tutti gli studi seri (dell’INPS, della Fondazione Moressa, ecc.). Ma la propaganda politica ci ha ormai convinto del contrario, e anche sotto l’influsso del punto 3 precedente, il moral hazard, abbiamo tutti paura che lo “straniero” venga per sfruttare il nostro welfare e vivere alle nostre spalle. Del resto, cosa c’è di più facile e di più politicamente pagante che ingigantire le paure e prendersela con i deboli, che per giunta neppure votano?
Cause della crisi 5) Cambiamenti demo-economici
Chiudo con quello che a me pare il quinto, ma non meno grave motivo di crisi del welfare che, ricordiamolo, è nato in condizioni molto diverse da quelle attuali. Nel dopoguerra e negli anni del boom economico si potevano contrarre debiti a cuor leggero (anche troppo, come abbiamo poi scoperto), perché la percezione era che in futuro saremmo stati più ricchi e li avremmo potuti ripagare facilmente. Ma la crescita economica è da noi pericolosamente vicina allo zero. Peggio ancora va sul fronte demografico: dalla robusta crescita della popolazione degli anni ’60 (sei o sette per mille all’anno) siamo passati non solo alla stazionarietà, ma ormai all’arretramento. E, soprattutto, siamo molto invecchiati: siamo più vecchi dei nostri partner e (anche) sotto questo profilo continuiamo a peggiorare. Ad esempio, il peso degli ultra-sessantacinquenni sulla popolazione in età lavorativa (15-64 anni, secondo una vecchia definizione) è passato dal 15% del 1961 (censimento) al 35% del 2017 (30% in Europa).
La cosa ha molta rilevanza perché un po’ in tutto il mondo il welfare è organizzato a beneficio soprattutto degli anziani: in alcuni casi in modo esplicito (le pensioni, ad esempio), in altri in modo implicito (le pensioni di reversibilità, che però vanno in grande maggioranza al/la coniuge sopravvivente, e sempre di anziani si tratta; o la sanità, formalmente a copertura di tutti, ma in pratica utilizzata in larghissima misura dagli anziani). In Italia, poi, questa distorsione del welfare a favore degli anziani è ancor più accentuata che altrove. Ad esempio, le funzioni (di protezione di) “Anziani” e “Sopravviventi” assorbono più del 58% della nostra spesa sociale (il 46% in Europa), e per la sanità se ne va un altro 23% abbondante (29% in Europa). Complessivamente, quindi, una spesa sociale da noi maggiore che altrove (come si è detto all’inizio: quasi il 30% del Pil, contro 28,6% in Europa), è però quasi esclusivamente mirata agli anziani (quasi l’82% del totale, tra pensioni, reversibilità e sanità). Solo il 18% (il 25% in Europa) va per altre funzioni: disoccupazione, famiglia, alloggio, …
Il rapporto di causa-effetto, a dire il vero, è un po’ ambiguo: spendiamo molto per gli anziani perché loro sono tanti (e in crescita, e bisognosi), o invece spendiamo molto per gli anziani perché loro (che sono in tanti a votare) si sono accaparrati il grosso le risorse? C’è del vero in entrambe le interpretazioni: Brandolini, per esempio, ci ha recentemente ricordato che in Italia nel 2005-2016, a seguito della crisi, la povertà assoluta è aumentata, ma non tra gli anziani – gli unici ben protetti dal welfare. E pensate che il peso relativo delle pensioni (oltre il 61% nel 2005) è da allora calato di tre punti, all’interno della spesa sociale, solo grazie alle vituperate riforme previdenziali (Dini e aggiustamenti successivi, Fornero in primis), perché nel frattempo, demograficamente parlando, siamo invece ancora e robustamente invecchiati (l’indice di dipendenza degli anziani, prima introdotto, era 30% nel 2006, ed è salito al 35% nel 2017).
Anche in questo caso, abbiamo avuto un aiutino: non da casa, come nelle trasmissioni televisive, ma a casa – a casa nostra, grazie alle immigrazioni, senza le quali saremmo ancora di meno e, soprattutto, ancora più vecchi. Ma questo, in questo periodo, è un argomento tabù.