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Sport e integrazione sociale. Una relazione a rischio

Sport e integrazione sociale rappresentano un binomio apparentemente solido. L’articolo di Tintori e Cerbara propone alcune considerazioni derivanti da recenti ricerche condotte dal CNR sugli adolescenti in Italia che invece confutano l’esistenza di una relazione diretta tra pratica sportiva
, interiorizzazione di valori socialmente positivi e abbattimento di stereotipi e pregiudizi sociali.

L’integrazione sociale è un processo associato alla partecipazione degli individui alla vita collettiva e riguarda il complesso delle relazioni che si instaurano tra varie componenti sociali, e dunque tra gruppi che possono essere distinti da specifiche caratteristiche, come l’etnia, il genere, o anche l’appartenenza culturale e religiosa. L’integrazione sociale a cui si fa riferimento parlando del crescente impatto demografico e sociale della popolazione straniera in Italia costituisce oggi un obiettivo prioritario se si punta a un proficuo funzionamento del Paese, e ciò perché gli individui con background migratorio, anche in ragione dei positivi riflessi che generano sul nostro assetto demografico ed economico, costituiscono un elemento ormai essenziale, e irrinunciabile, della nostra società (Cerbara, Tintori 2017). L’integrazione è tuttavia un processo complesso, bilaterale, orientato a completare la società e non semplicemente a includere in essa per assimilazione nuovi cittadini, e implica pertanto un “adeguamento reciproco da parte di tutti gli immigrati e di tutti i residenti” (Consiglio dell’UE, 2004), che può aver luogo in ogni ambiente idoneo a un costruttivo confronto.

Lo sport come veicolo di integrazione sociale

Un’importante misura dello stato del processo di integrazione etnica è data dalla quantità e dalla qualità delle relazioni che la popolazione italiana intrattiene con quella con background migratorio; relazioni che devono basarsi sul dialogo, e non su contrapposizioni interculturali preconcette, ideologiche, alimentate da stereotipi e pregiudizi. Da questo punto di vista lo sport si configura come un terreno ideale ove possano dialogare le diversità e ridursi le distanze sociali. Storicamente strumentalizzato come elemento di propaganda, utile per strutturare il senso di appartenenza, anche nell’immaginario comune lo sport incarna oggi i valori dell’integrazione sociale. Il fair play, inteso come corredo valoriale alla cui base si pone la collaborazione e il rispetto altrui, è di fatto un concetto che accomuna sport e integrazione, e i valori di cui lo sport è portatore, in ragione della loro universalità, possono teoricamente porsi come fattore di base dell’unità di un Paese.

In group e out group

Come spesso accade, però, il passaggio dalla teoria ai fatti può porre in discussione le conclusioni più lineari. La pratica sportiva, di per sé, non genera infatti integrazione sociale. Quest’ultima necessita di un’attenzione didattica specifica, che orienti il fare sport all’acquisizione dei suoi valori positivi. Per ragioni culturali, e forse ancor prima economiche, le potenzialità sociali dello sport risultano però ancora oggi trascurate, mentre si evidenzia un’attenzione largamente focalizzata sullo sviluppo della performance agonistica. Se da una parte, dunque, guardare allo sport come elemento di politica sociale appare proficuo non solo per favorire l’interculturalità e l’armonia sociale, ma anche per ridurre la sedentarietà e le patologie ad essa associate, con tutti i benefici che ne conseguirebbero a livello di spesa sanitaria, dall’altra la cultura dello sport competitivo mostra la natura neutrale del fenomeno, o meglio, ambivalente. Escludendo l’autoevidenza della componente educativa dello sport, la pratica di attività sia di gruppo sia individuali può infatti attivare meccanismi di integrazione, spinti da logiche in-group che solidaristicamente promuovono l’identità del gruppo, così come dinamiche di conflitto ed esclusione, che favoriscono l’out-group gerarchizzando lo spazio sociale. Lo sport può pertanto attivare messaggi ambivalenti, ed essere strumento educativo solo se insegnato con specifica attenzione a questa sua componente.

L’influenza della pratica sportiva sugli atteggiamenti e sulla formazione delle opinioni

Un’indagine nazionale condotta nel 2017 dal CNR su circa 4000 studenti e studentesse del biennio delle scuole secondarie di secondo grado (Caruso et al. 2018) ha analizzato la relazione tra sport e integrazione sociale. I dati non dimostrano l’esistenza come peraltro osservato in altre recenti ricerche (Eccles et al. 2003; Tintori, Cerbara 2016 e 2017), di una relazione diretta tra pratica sportiva e interiorizzazione di valori socialmente positivi. Lo studio ha permesso di porre a confronto gli studenti che praticano sport extrascolastico con quelli cosiddetti sedentari, per verificare l’influenza che tale pratica esercita sui livelli di stereotipia sociale, di tipo etnico, sportivo e di genere, sui pregiudizi e sugli atteggiamenti connessi alla devianza relazionale. Tenendo conto che, nella fascia di età analizzata, il 62% degli adolescenti risulta praticare sport al di fuori dell’ambiente scolastico (74% maschi e 54% femmine), e che i giovani nati all’estero sono quelli che meno di tutti fanno sport (46% tra gli immigrati di prima generazione) – cosa che riduce le chances che potenzialmente potrebbe loro offrire la pratica sportiva ai fini dell’allargamento delle reti amicali – rispetto ai principali aspetti studiati i dati mostrano che la pratica sportiva non veicola valori positivi, non favorisce l’abbattimento di stereotipi e pregiudizi né riduce la tolleranza verso comportamenti antisociali quali il bullismo.

Beninteso, ciò non vuol dire che lo sport sia diseducativo, ma si viene a delineare una sorta di antinomia tra sport e interiorizzazione di valori positivi perché, benché in teoria il primo non escluda il secondo, nella pratica non è verificata la relazione di causa-effetto che poteva essere attesa. Sul piano valoriale, ad esempio, il “rispetto per tutti” si configura (fortunatamente) come l’aspetto più importante per i giovani coinvolti nello studio, ma è privilegiato in particolare da chi non pratica sport extrascolastico, dalle studentesse e da chi ha un background migratorio. Nonostante le differenze sull’importanza attribuita ai valori siano solo minime tra chi pratica e chi non pratica sport nel tempo libero, è però da notare che l’”uguaglianza” e la “solidarietà” sono ideali più solidi tra i sedentari, mentre gli sportivi sono maggiormente orientati alla “realizzazione di se stessi” e a “soldi e successo”. Passando agli stereotipi, analogamente, si rintraccia sempre tra gli sportivi una maggiore presenza dei condizionamenti sociali. È così che tra questi prevale l’idea che l’allenatore sia meglio dell’allenatrice, che per fare sport ci vuole il fisico, che la violenza nel tifo della propria squadra sia un fatto accettabile, e che gli immigrati generino insicurezza, tolgano il lavoro agli italiani e svolgano per lo più attività criminali (la tabella 1 illustra il grado di accordo sugli stereotipi anche relativamente ad altre variabili esplicative). Questo profilo di risposta in buona parte dipende dalla composizione dei gruppo dei non sportivi che, come si è detto, riunisce più ragazze e stranieri rispetto al gruppo di sportivi.

L’atteggiamento verso bullismo e razzismo conferma la tendenza delineata dai due gruppi a confronto. Sempre con scarti minimali, chi pratica sport risulta infatti più tollerante verso entrambi i problemi (24% contro il 21% dei non sportivi rispetto al razzismo; 21% contro 20% dei non sportivi rispetto al bullismo), complessivamente considerati da circa due studenti su dieci come modi di essere degni di rispetto o comunque fenomeni che producono effetti non giudicabili se non contestualizzati. Tant’è che in particolare i gruppi sociali più deboli, e vittime del bullismo (stranieri e donne), ritengono che proprio con lo sport possano generarsi occasioni di esclusione (lo sostengono il 23% degli stranieri contro il 19% degli italiani e il 21% delle studentesse contro il 19% degli studenti) e conflitto.

Conclusioni

Queste informazioni non devono far pensare che lo sport produca intolleranza piuttosto che integrazione sociale, né che il mondo sportivo sia terreno fertile per derive pregiudiziali, tant’è che le differenze tra sportivi e non sono solo minime. Questi risultati palesano piuttosto la neutralità della pratica sportiva sul piano valoriale e sull’abbattimento dei condizionamenti sociali, confutando così l’idea che lo sport sia di per sé un fatto educativo.

Note bibliografiche

Caruso M. G., Cerbara L., Menniti A., Misiti M., Tintori A. (2018). Sport e integrazione sociale. Indagine sulle scuole secondarie di secondo grado in Italia, Roma: Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali. (IRPPS Working papers, in corso di pubblicazione)

Cerbara L., Tintori A. (2017). Lungo l’asse dell’integrazione/esclusione. Il banco di scuola con-diviso tra studenti italiani e stranieri. In: Migrazioni e integrazioni nell’Italia di oggi, a cura di Corrado Bonifazi, Roma: CNR-IRPPS.

Consiglio dell’Unione Europea (2004), Comunicato stampa 14615/04 (presse 321), 2618ª Sessione del Consiglio, Giustizia e affari interni, Bruxelles, 19 novembre.

Eccles J. S., Barber B. L., Stone M., Hunt J. (2003), Extracurricular activities and adolescent development, Journal of Social Issues, 59, pp. 865-89.

Tintori A., Cerbara L. (a cura di) (2016). Giovani alla prova. La condizione giovanile nella Città metropolitana di Roma Capitale. Aracne editrice.

Tintori A., Cerbara L. (2017). Lo sport di tutti. Valori e didattica dell’integrazione sociale. In: Pratica sportiva e lavoro sociale tra stato, mercato e comunità, Culture e Studi del Sociale (CuSSoc), vol. 2 (1), giugno, pp. 43-54 [ISSN: 2531-3975].

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