In una società in cui la durata della vita non è uguale per tutti, l’età pensionabile dovrebbe essere differenziata oppure no? La questione torna periodicamente alla ribalta (v., ad esempio, Dalla Zuanna, 2016 e Sasson, 2016): al problema (vero), segue però, invariabilmente, una risposta a mio avviso sbagliata: “Sì: differenziamo l’età pensionabile!”.
Per comprendere perché la risposta sia (ai miei occhi) sbagliata, cerchiamo prima di capire bene come funziona il nostro sistema previdenziale. Con un esempio.
Come capire il problema previdenziale: la grande pasticceria
In una società estremamente semplificata ci sono solo pasticceri: alcuni sono attivi e altri pensionati (non producono più, ma vogliono mangiare). Ogni giorno, i pasticceri attivi si mettono insieme e producono una gran torta. Alla sera, la torta è pronta, ma c’è il problema di come dividerla tra i pretendenti: da una parte i pasticceri attivi (con differenze di “merito” – diciamo di produttività – al loro interno) e dall’altra gli ex pasticceri (anch’essi con differenze di merito, legate alla loro passata produttività). Il problema è trovare una regola per la divisione, tra tutti e in parti diseguali, di una torta prodotta solo da alcuni.
Questa regola dovrebbe idealmente essere una specie di “legge costituzionale” e cioè valida (quasi) per l’eternità, ma, al tempo stesso, in grado di produrre risultati sempre ragionevoli, e questo in un mondo dinamico e imprevedibile. Ogni giorno che passa, infatti, qualche nuovo pasticcere si mette al lavoro; qualche pasticcere rimane disoccupato, qualcun altro va in pensione, e qualche pasticcere pensionato muore. Ogni tanto qualcuno inventa un modo di produrre di più, e la torta viene più grande; ogni tanto, invece, i macchinari si rompono, e la torta viene più piccina. Poi ci sono ondate di nascite più o meno numerose, che si traducono, dopo 20 anni circa, in tanti pasticceri attivi, ma dopo 66 anni circa, in tanti pasticceri pensionati. Poi ci sono le migrazioni, e poi c’è la mortalità, poco prevedibile ma storicamente in calo, con i pasticceri (pensionati) che muoiono sempre più tardi … Insomma: non si sa quanto sarà grande la torta prodotta domani (o tra un anno, o tra 20, …) né quante bocche saranno da sfamare, e come saranno divise tra pasticceri attivi e non (più) attivi, e, all’interno di questi gruppi, tra pasticceri più o meno (anticamente) produttivi.
Un discreto caos, ammettiamolo. Ma almeno una cosa dovrebbe essere chiara: la divisione serale della torta è un gioco a somma zero, per cui, se io prendo una fetta più grande, qualcun altro, per definizione, la dovrà prendere più piccola, perché ormai la torta prodotta quella è.
Regole rigide e regole variabili
Per la divisione (=sistema previdenziale), la soluzione cui si è abitualmente giunti è quella di non avere una regola rigida: o meglio, ogni volta la si annuncia come tale (e i pasticceri, che non sono delle cime, ci credono o fanno finta di crederci), ma poi, quando le circostanze cambiano e la rendono non più sostenibile, la regola viene cambiata. Di fronte a questi ripetuti fallimenti alcuni, addirittura, arrivano a teorizzare la preferibilità di un sistema previdenziale con regole flessibili, il che è una solenne corbelleria, per almeno due motivi. Uno, quello previdenziale è un patto a lunghissimo termine: i pasticceri si mettono al lavoro verso i 20 anni, smettono verso i 66, e campano fin verso gli 80. Se si chiede loro di pagare (cominciando a 20 anni e andando avanti per 46 anni circa) in cambio di certe promesse di ricevere, e poi quando arriva il momento buono, questi non ricevono, o ricevono meno del pattuito, li si sta truffando. Certo, se pagare il pattuito è proprio impossibile, c’è poco da fare: bisogna correggere il tiro (=cambiare le regole). Ma da qui a sostenere che si tratta di cosa buona e giusta, un po’ ce ne corre.
Il secondo motivo, legato al primo, è che quello previdenziale, è un patto a tre: tra chi è pensionato, chi è attivo, e chi deve ancora entrare nel mondo del lavoro (perché giovane o addirittura non ancora nato), ma si troverà già confezionate regole previdenziali che non ha scelto. E il potere contrattuale delle tre parti è scandalosamente diverso. In queste condizioni, quello che può succedere (ed è concretamente sempre successo, non solo in Italia) è che si stipuli un patto che favorisce gli attori presenti (attivi e pensionati, che votano), a danno degli altri, ché tanto, o non ci sono ancora, o, se sì, sono giovani, non votano, e comunque disdegnano la politica tradizionale (v. Quaranta 2016) – e quindi se lo pigliano in tasca.
Come risolvere i problemi? Scaricandoli sugli altri, che domande!
Il problema, che probabilmente vi appare di difficile soluzione già così, è nella realtà molto più complicato. Eh sì, perché, tanto per dirne una, i pasticceri non sono tutti uguali: sono divisi in categorie (che si riconoscono dal colore della giacca e del cappello) ognuna delle quali vuole regole previdenziale solo per sé (“Abbiamo le nostre specificità”). E poi perché a tutti sembra opportuno continuare a proporre eccezioni e variazioni alle regole del gioco – che, in quanto patto intergenerazionale, dovrebbe invece essere uguale per tutti (proprio come la Costituzione – e come tale dovrebbe essere impostato prima, e difeso poi). Ecco allora i minimi e le integrazioni al minimo; ecco i controlli sul numero di anni passati al lavoro; ecco i vincoli sulla possibilità di cambiare categoria lavorativa (cioè: cambiare il colore della giacca e del cappello) con infinite complicazioni nei calcoli; ecco le regole che cambiano continuamente su chi è già in pensione ma ancora lavora, e via dicendo.
In realtà, una soluzione c’è (v. De Santis, 2016), ma non è di questo che voglio parlare. Voglio invece richiamare l’attenzione sul fatto che tutti coloro che, di fronte a un qualunque problema, propongono una soluzione che passi attraverso il sistema previdenziale, stanno in pratica dicendo (elegantemente): “Non affrontiamolo noi, questo problema: scarichiamolo invece sulle spalle dei pasticceri futuri!”. Ci sono disoccupati un po’ in là con gli anni? Mandiamoli in pensione anticipatamente! E le pensioni di reversibilità? Estendiamole anche ai conviventi! E le categorie privilegiate (i parlamentari, ovviamente, ma mica solo loro: la lista è lunga)? Manteniamole! Perché mai dovremmo fare i taccagni se i soldi non li tolgono dal nostro portafogli?
Il caso di sottopopolazioni con diversa durata della vita
All’interno di questo (a mio avviso, sbagliatissimo) modo di ragionare, rientrano anche le conclusioni cui quasi inevitabilmente giungono gli studi sulla durata differenziale della vita. Premessa: un sistema previdenziale ben fatto è calibrato su valori medi e, per definizione, favorisce i più longevi (che, da pensionati, per più anni mangeranno una torta che non hanno prodotto) e sfavorisce gli altri (gioco a somma zero: ricordate?). Finché le variazioni individuali intorno alla durata media della vita sono puramente casuali, questo va bene: alla partenza siamo tutti uguali, ma poi, imprevedibilmente, ad alcuni va meglio (campano più a lungo) e ad altri va peggio. Ok, è il principio di base di ogni assicurazione.
Ma se invece si sa a priori che certe categorie muoiono prima? Questo avviene, ad esempio, ai lavoratori manuali rispetto agli impiegati, o agli impiegati esecutivi rispetto a quelli di concetto. E avviene anche per persone con diverso titolo i studio: più alto è il titolo di studio, più a lungo si campa. La soluzione che a tanti sembra ovvia è: mandiamo prima in pensione le categorie che muoiono prima (Dalla Zuanna, 2016; Sasson, 2016).
Ma questa soluzione è sbagliata, per molti motivi. Il primo, lo abbiamo già detto, è che si fa un atto di generosità con i soldi degli altri (le generazioni future): troppo comodo! Il secondo è che non è affatto chiaro quanta parte della maggior longevità dei laureati sia legata alla laurea, e quanta, invece, alle mille caratteristiche che differenziano i laureati, che fanno lavori diversi, guadagnano di più, stanno più attenti al loro corpo (dieta, sport), hanno atteggiamenti più prudenti (es. alla guida o nelle frequentazioni), fanno più prevenzione, hanno migliori conoscenze nell’ambiente medico, ecc. E poi siamo certi che il laureato in ingegneria vada trattato come quello in chimica? Quello della Bocconi come quello della Sapienza? E le lauree telematiche? La laurea breve quanto meno vale, in anni di vita, della laurea magistrale, del dottorato, e dell’assegno post-doc? E se uno comincia a lavorare con la licenza media, ma poi (facendosi un gran … coraggio) prende la maturità a 40 anni e la laurea a 50, come lo trattiamo a fini previdenziali? I cambiamenti di status sono frequenti – e tanto più se ragioniamo non solo in termini di istruzione, ma anche in termini di lavoro: si può fare il cameriere da giovane, poi il piazzista, poi si vendemmia d’autunno mentre d’estate si fa il bagnino, poi si trova un lavoro in Comune, poi si apre un’attività commerciale, … Cercare di classificare tra milioni di combinazioni possibili, e con possibili cambiamenti di status è pura follia, tanto più che la situazione evolve di anno in anno.
Infine, noi tutti, in buona fede (ma, nondimeno, sbagliando) siamo molto selettivi nella scelta delle diverse durate della vita da tutelare o, invece, da ignorare. L’elenco delle patologie (anche congenite) che causano un accorciamento della durata della vita è praticamente infinito: diabetici, obesi, ipertesi, cardiopatici, …a ognuno di questi vogliamo dare un’età pensionabile sua specifica? E tabagisti, etilisti, tossicodipendenti, persone con precedenti penali …? Ah, no, loro no: campano meno, ma “se la sono voluta”. E gli stranieri, sempre più presenti nel nostro paese, magari da distinguere per nazionalità? Ah, no, neanche loro: già che gli concediamo la pensione, figurarsi se gliela diamo anche prima degli altri!
In realtà, l’unica distinzione che potrebbe avere un senso (ma io sono contrario anche a questa) è quella tra maschi e femmine. Eh sì, perché in tutto il mondo, da sempre, le donne vivono più a lungo, e appare legittimo pensare che ci sia dietro una componente genetica di differenziazione – e parliamo qui di un carattere facilmente identificabile, che non cambia nel tempo (come invece fanno tutti gli altri: lavoro, istruzione, residenza, stato di salute, …). E così come non avrebbe molto senso stipulare una unica polizza sulla vita per tutti gli animali domestici (mettendo in uno stesso calderone pesciolini rossi e tartarughe), analogamente – si potrebbe dire – non ha senso mettere insieme, nel patto previdenziale, i maschi e le femmine, con i primi che campano 5/6 anni meno delle seconde. Ma nessuno lo propone mai, perché? Perché è politicamente impresentabile: chi avrebbe il coraggio di sostenere pubblicamente che le donne, che campano più a lungo, dovrebbero andare in pensione (ben) più tardi?
(NdR Io ce lo avrei. Ma penso che sarebbe sbagliato. Il sistema previdenziale è, potenzialmente, uno dei più forti collanti nella vita di una nazione. Perché funzioni come tale, però, bisogna che si basi su poche regole, ma chiare, credibili, durevoli, da proteggere con le unghie e coi denti, come la Costituzione, se non di più. E uguali per tutti, ma proprio tutti, senza nessuna eccezione, mai. Altrimenti, ne viene fuori un gran pasticcio – e non solo nel senso dell’esempio sopra proposto.)
Per saperne di più
Dalla Zuanna G. (2016) “Lo studio ti allunga la vita”, Neodemos, 24 maggio
De Santis G. (2016) “An Almost Ideal Pension System for Europe (and other countries)”, N-IUSSP, February 29,
Quaranta M. (2016) “Sulla (non) partecipazione politica dei giovani italiani: un mito da sfatare?”, Neodemos, 4 marzo 2016
Sasson I. (2016) “Trends in Life Expectancy and Lifespan Variation by Educational Attainment: United States, 1990-2010”, Demography, 53(2): 269-293