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Luci della città diffusa

Alla vertiginosa agglomerazione urbana delle città latino-americane, asiatiche e africane si è spesso opposta la generale situazione di stagnazione e persino di declino delle grandi città occidentali. In realtà le cose stanno diversamente: negli Stati Uniti e in Europa, quella che per decenni è stata chiamata urbanizzazione diffusa delle campagne è divenuta una nuova forma di città, i cui più recenti mutamenti socio-spaziali sono ancora relativamente opachi all’indagine statistica e urbanistica.

La dispersione urbana: anticittà o post-city?
La dispersione urbana americana degli anni ’50 e ’60 aveva minato alla base molti luoghi comuni su cosa fosse e cosa non fosse una città: sociologi urbani e urbanisti presero a interrogarsi in un dibattito alle volte aspro sull’essenza stessa della vita urbana.  Tutte le teorie  tradizionali furono messe in crisi e costrette su posizioni difensive: la nuova organizzazione dello spazio non sembrava avere né i requisiti della città né quelli della campagna. Così se, da una parte, urbanisti come Webber (1964) invitavano a liberarsi dall’ossessione per il luogo “in quanto è l’interazione, non il luogo, che costituisce l’essenza della città e della vita urbana”, altri, come Mumford (1962), insistevano: “l’essenza della città consiste nella sua capacità di focalizzare, per la sua stessa forma, le attività umane”.
Mumford chiamava sprezzantemente l’urbanizzazione diffusa “anticittà” e Webber arrivò a scrivere nel ‘68 di “post-city age”. Sia per l’uno che per l’altro l’esito fu lo stesso: la nuova organizzazione dispersa dello spazio non era una città. Densità e prossimità erano state da sempre caratteristiche fondamentali della vita urbana, ma la grande diffusione delle automobili e delle telecomunicazioni (telefono, radio e televisione) permetteva agli abitanti dei territori ad urbanizzazione diffusa di supplirvi in qualche modo. Anche per gli urbanisti più avanzati era ancora difficile immaginare questi territori come una città e non come una patologia o qualcosa di completamente nuovo e diverso.

Dall’urbanizzazione diffusa alla città diffusa
In Italia una ricerca spartiacque per gli studi urbani è stata “La città diffusa”, realizzata sul Veneto centrale da un équipe di ricercatori e studenti guidata da Indovina nel 1990. Questa équipe evitò di dichiarare la morte di una forma urbana a favore di un’altra e avanzò l’ipotesi che i territori dell’urbanizzazione diffusa italiana potessero ormai essere considerati città vere e proprie, città diffuse.
Non si trattava né di una metafora né di un termine allusivo. Il termine era “descrittivo di una tipologia di organizzazione spaziale” che presentava alcuni caratteri urbani in assenza di altri. Un territorio ampio, estensivo, privo di densità e continuità che ha attraversato diverse fasi. Prima quella della campagna urbanizzata ad opera degli stessi strati sociali che abbandonavano il lavoro agricolo per via del loro miglioramento economico. Poi una seconda fase, che ha all’origine la questione delle abitazioni della città compatta: una parte della popolazione urbana più svantaggiata si trasferisce nella campagna urbanizzata e vi porta i modi di vita urbani. Infine una terza fase, dove è la classe media a dislocarsi, fenomeno noto come “fuga dalla città”.
La città diffusa ha una popolazione consistente, pari a quella di una grande città e non va confusa con l’area metropolitana. Questa è un territorio fortemente gerarchizzato, concentrico e con satelliti subordinati, caratterizzato da connessioni verticali. Al contrario la città diffusa è non gerarchica, le connessioni sono orizzontali, la sua caratteristica socio-spaziale principale è la tendenza all’“isotropia” (Secchi-Viganò, 2009), “una parola che descrive e disegna una situazione concreta di permeabilità e accessibilità generalizzate”.

Città compatta e città diffusa: l’internalizzazione della dimensione pubblica

La città tradizionale, o città compatta, e la città diffusa sono divenute ormai complementari: ciò significa che se gli abitanti dell’una hanno portato nei territori dell’urbanizzazione diffusa gli stili di vita urbani, gli abitanti dell’altra hanno maturato dei nuovi comportamenti urbani che hanno influenzato profondamente la città compatta.
Riteniamo, ad esempio, che non sia comprensibile il mutamento di statuto dello spazio pubblico della città compatta senza porsi il problema di come lo abbiano reinventato gli abitanti della città diffusa. Conti e Tarantino (2006), ad esempio, definiscono  “internalizzazione delle relazioni” il progressivo abbandono degli spazi pubblici della città compatta da parte dei suoi abitanti. Gli spazi pubblici sono utilizzati solo per il passaggio da un luogo circoscritto (coperto d’inverno e aperto d’estate) all’altro. L’internalizzazione della dimensione pubblica non fa che riprodurre nella città tradizionale ciò che è del tutto naturale nella città diffusa, dove, come scrive Indovina, “niente è sotto casa” e ci si sposta da un luogo all’altro sempre e comunque in automobile, quel mutamento antropologico dell’abitare che Sloterdijk (2006) chiama “poetica della vita sottocoperta”.

La teoria dei vasi comunicanti
Ovviamente vi sono molte ragioni che stanno alla base dell’internalizzazione della dimensione pubblica, ma va sottolineato che il laboratorio di questi nuovi comportamenti urbani è stata la città diffusa, che li impone per la sua stessa configurazione socio-spaziale dispersa. Riteniamo sia possibile affermare che l’abitare “sottocoperta” tipico di questa abbia ormai condizionato sottilmente i comportamenti degli abitanti della città compatta. A favore inoltre dell’ipotesi di complementarietà delle due forme di organizzazione dello spazio è quello che è stato chiamato da Conti e Tarantino (2006) “teoria dei vasi comunicanti”. Questa funziona a due livelli: 1) gli spazi abbandonati dagli abitanti della città compatta sono occupati legalmente o illegalmente dai migranti; 2) gli spazi pubblici svuotati dagli abitanti della città compatta sono divenuti i luoghi d’incontro dei migranti. 
 I migranti s’incontrano preferibilmente negli spazi pubblici, all’esterno e all’aperto: se i romani durante il tempo libero frequentano quasi esclusivamente spazi a pagamento o abitazioni, i migranti accedono soprattutto agli spazi gratuiti e non utilizzano le abitazioni come luogo d’incontro giacché sovraffollate. Tutto ciò li sovraespone, la loro visibilità è sovradimensionata dal comportamento stesso dei romani.

Futuri mutamenti socio-spaziali della città diffusa
Le relazioni urbane non si sono internalizzate perché i migranti hanno occupato lo spazio pubblico costringendo i nativi alla ritirata. Al contrario: lo spazio pubblico è utilizzato in misura sempre maggiore dai migranti perché i nativi già lo disertavano. Per comprendere i futuri mutamenti della città diffusa (quinta fase) sarà utile individuare il ruolo conflittuale che vi giocano e giocheranno i precari di seconda generazione e i migranti provenienti dalla città compatta, con i loro peculiari modi di usare lo spazio pubblico.
A  Roma, in uno spazio occupato a Tor Sapienza da precari e migranti chiamato Metropoliz , per gioco si sta organizzando una partenza in massa per la luna e allo scopo si sta costruendo un razzo, per i preparativi in una torre diroccata è stato messo un telescopio realizzato con vecchi barili colorati. Di notte, puoi guardarci le stelle, oppure guardare l’orizzonte dalla torre: sono le luci di una città diffusa.
Bibliografia:
Conti Cinzia e Tarantino Alessandra, “Dentro Roma: la città straniera e la città degli stranieri”, in Conti Cinzia e Strozza Salvatore, Gli immigrati stranieri e la capitale,  Franco Angeli, 2006, Milano.
Indovina Francesco, “La città diffusa”, in AAVV, La città diffusa, DAEST, 1990, Venezia.

Mumford Lewis, “The Megalopolis as Anti-City”, in Architectural Record, 132 (December 1962), 101-108, The Record and Guide, New York.  Secchi Bernardo e Viganò Paola, Le diagnostic prospectif de l’agglomération parisienne, http://www.legrandparis.culture.gouv.fr, 2009, Milano.

Sloterdijk Peter, Il mondo dentro il capitale, Meltemi, 2006, Roma.
Webber M. Melvin, “The Urban Place and the Nonplace Urban Realm”, in Webber M. Melvin et al., Explorations into Urban Structure, University of Pennsylvania Press, 1964, Philadelphia. 
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