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Migrazioni, cambio climatico, e le infondate paure

Il 2024 potrebbe risultare l’anno più caldo di sempre rafforzando la tendenza al riscaldamento del pianeta. Un fenomeno che non mancherà di influenzare la mobilità nelle aree più fragili del globo; tuttavia sono infondati gli allarmi circa l’entità delle future possibili migrazioni climatiche.

La capacità di adattamento degli umani alle più diverse condizioni ambientali è davvero ammirevole. Scrisse Darwin: “Gli abitanti della Terra del Fuoco, del Capo di Buona Speranza o della Tasmania in un emisfero, e delle regioni Artiche, nell’altro, debbono essere passati per molti climi ed aver cambiato le loro abitudini molte volte, prima di raggiungere le loro dimore attuali”. E oggi constatiamo senza sorprese che milioni di persone vivono in climi artici, e milioni di persone vivono in climi torridi, in società funzionanti, anche se i primi gradirebbero qualche grado in più e i secondi qualche grado in meno. Questa premessa è importante perché aiuta a sdrammatizzare gli allarmi che spesso, e senza fondamento, preannunciano inarrestabili sconvolgimenti migratori in conseguenza del riscaldamento globale in corso. Preannunciando che centinaia di milioni di persone, se non addirittura un miliardo, saranno per sua causa in marcia (“in fuga”) alla metà del secolo, riversandosi fuori dei confini del paese – o addirittura del continente – nel quale vivono. 

Vale la pena di metter un po’ d’ordine nella questione, che è assai complessa. Il riscaldamento del pianeta provoca, sicuramente, effetti ambientali, sociali e economici di rilievo, influenzando anche le migrazioni. In particolare:

1) l’aumento e la frequenza di eventi eccezionali (inondazioni, ondate di calore, frane) e i disastri ad essi connessi;

2) l’aumento graduale del livello dei mari, che amplifica, tra l’altro, gli effetti dei disastri nelle fasce costiere;

3) l’inaridimento e la desertificazione di ampi territori, con ricadute negative sulla pastorizia e le coltivazioni, soprattutto se non irrigue. 

Gli eventi di cui in 1) determinano shock di natura temporanea, mentre i fenomeni di cui in 2) e 3) hanno effetti graduali che si dispiegano nel lungo periodo.

Cambio climatico e disastri

Negli ultimi decenni la “febbre” del pianeta è notevolmente cresciuta: di oltre un grado centigrado rispetto all’epoca preindustriale, e il 2024 potrebbe stabilire un nuovo record. Sorge spontanea la domanda: sono aumentati i disastri “naturali” e si sono aggravate le loro conseguenze? La risposta non è facile, per la mancanza, o inattendibilità, dei dati disponibili, nonostante gli sforzi di diversi organismi specializzati e centri di ricerca. I disastri naturali sono fonte di perdite umane e di spostamenti migratori, nella maggioranza dei casi temporanei, perché le persone dislocate tendono a ritornare nelle loro case appena possibile. La Figura 1 riporta l’andamento dei disastri naturali (inclusi terremoti e eruzioni vulcaniche, che sono poco numerosi), dal 1999 ai primi mesi del 2024. L’unità di rilevazione è il “disastro” cioè un “evento che supera le capacità locali di gestione, che richiede l’aiuto e l’assistenza nazionale o internazionale, imprevisto e improvviso, che genera distruzione e sofferenze umane”. Benché la rilevazione si spinga addietro nel tempo, si avverte che solo la serie successiva al 2000 è basata su dati controllati e affidabili. E, come può vedersi, dal 2000 in poi non emerge una tendenza all’aumento dei disastri, quasi tutti di natura climatica (inondazioni, siccità, eventi metereologici estremi)1.

I disastri naturali, come già detto, generano spostamenti di popolazione: nella Figura 2, che riporta il numero di “disastri” e quello delle persone “dislocate” (2008-2021) emerge che il loro numero è notevolissimo (compreso tra 15 e 40 milioni all’anno), ma senza una visibile tendenza. Ripetiamo che si tratta di movimenti di breve periodo: le tremende inondazioni sofferte dal Pakistan nel 2022, costrinsero 8 milioni di persone a spostarsi, ma oltre il 90% di queste era rientrato nelle proprie case entro la fine dell’anno. 

La carestia del Sahel 

Un caso interessante è quello della siccità e della carestia avvenuta nella regione del Sahel nel 2019 (soprattutto in Mali e Burkina Faso) che provocò un’ondata migratoria di più di mezzo milione di persone, inclusi rifugiati politici. La Figura 3 sintetizza i termini del disastro, e il numero dei dislocati, non solo interni alla regione ma anche diretti ad altri paesi (Mauritania, Niger). Effetti ancora più disastrosi ebbero la grande carestia del 2010, così come quella, commista ai diffusi conflitti, che è esplosa nel 2022-23. Si tratta di una regione fragilissima, per l’instabilità climatica, il deterioramento ambientale, le condizioni politiche avverse. Ma sicuramente la siccità ha contribuito a generare flussi di migrazione, il cui ripetersi rischia di rendere permanenti le forze di espulsione all’interno e all’esterno della regione. 

E nel lungo periodo?

Quando si parla del legame tra cambio climatico e migrazioni si pensa soprattutto all’evoluzione di queste nel lungo periodo. E sicuramene il riscaldamento in corso provocherà effetti sensibili, soprattutto per le popolazioni rese vulnerabili dalla crescita del livello marino, che vivono in territori a scarsa elevazione sul livello del mare e che saranno sospinte a scegliere dimore meno esposte. Oltre 200 milioni di persone vivono in zone costiere con una elevazione inferiore al metro, e 700 milioni in fasce di elevazione inferiore ai 10 metri. Il rischio estremo riguarda le piccole isole del Pacifico, alcune delle quali potranno essere sommerse parzialmente o totalmente. Si tratta di un grande problema, che costringerà le popolazioni isolane ad una migrazione definitiva, ma di microscopica entità numerica. Sono però le popolazioni che vivono in aree aride, soggette a processi di desertificazione, che potranno essere spinte all’emigrazione, particolarmente quelle legate alla pastorizia, o a un’agricoltura elementare e non irrigua, nell’Africa Sub-Sahariana e nell’Asia meridionale. Le stime parlano di aree popolate da due o trecento milioni di abitanti, e, in queste, di qualche decina di milioni di persone le cui condizioni di povertà potranno aggravarsi, sospingendole all’emigrazione. Si deve alla Banca Mondiale e a Groundswell (un centro di ricerca ad essa associato) una stima dei movimenti migratori  che potrebbero verificarsi nel trentennio 2020-2050, secondo varie ipotesi di andamento climatico2. Per l’Africa sub-Sahariana – di gran lunga più soggetta alla desertificazione – si tratta di 71 milioni nell’ipotesi più pessimista e di 21 milioni per quella che prevede un percorso “more climate friendly”. Cifre imponenti, ma che vanno spalmate su un trentennio: il che significherebbe, e nell’ipotesi più sfavorevole, spostamenti inferiori a 2 milioni e mezzo all’anno per una popolazione che in media, nel trentennio, conta 1 miliardo e mezzo di persone. Cifre sicuramente gestibili per un enorme continente in via di sviluppo. Inoltre si tratterebbe di spostamenti che solo in piccola parte potrebbero tradursi in flussi internazionali. 

Il cambiamento climatico non sarà indifferente per i movimenti migratori mondiali, aggiungendo una componente al complesso di fattori che li animano e sospingono. Si tratta tuttavia di tendenze gestibili con adeguate politiche di adattamento sociale ed economico, se attuate per tempo e con lungimiranza. Altrimenti gli tsunami, e gli eventi metereologici eccezionali più frequenti, continueranno a mietere vittime, e la povertà a sospingere un numero crescente di persone ad emigrare. 

Per saperne di più

Figura 1: EM-DAT, CRED / UCLouvain (2024) Global reported natural disasters by type, 1970 to 2024 (ourworldindata.org)

Note

1Hannah Ritchie e Pablo Rosado, Is the number of natural disasters increasing?, “Our World in Data”, 2024

2World Bank, Groundswell Policy Report # 1. Le stime, ottenute con un complesso modello, si riferiscono per lo più a mivmenti interni ai vari paesi;

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