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La pagella degli immigrati e quella del legislatore

Un anno fa, la legge n. 94/2009 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”), introduceva nella nostra legislazione l’istituto dell’“accordo di integrazione” a punti (art. 25 di detta legge), una sorta di pagella che dovrebbe certificare il percorso d’inserimento dell’immigrato nella società, e quindi la sua idoneità a restare nel nostro paese. C’è adesso una bozza del regolamento attuativo, in attesa dell’approvazione del Consiglio dei Ministri, che dovrebbe rendere operativo tale accordo. Potosì l’ha letta e non gli è per niente piaciuta e ve ne riferisce nelle righe che seguono, con qualche commento. La motivazione principale del giudizio fortemente negativo è semplice: la permanenza dell’immigrato nel paese non è subordinata al fatto che faccia un lavoro utile, che non incorra in reati, che viva in pace col suo prossimo o che sappia badare a se stesso e ai suoi familiari, ma al fatto che “superi” una serie di prove previste dall’accordo stesso e che, in parte, non sono condizione necessaria di civile convivenza.
L’accordo d’integrazione, a costo zero  

         L’accordo riguarda tutti gli stranieri di età compresa tra i 16 e i 65 anni, che entrano nel territorio nazionale e presentano richiesta di permesso di soggiorno di durata superiore ad un anno. L’accordo ha durata biennale, ed è gestito dallo “sportello unico”. Con l’accordo (art. 2), lo straniero si impegna a: 1) Acquisire una conoscenza della lingua parlata “almeno al livello A2” secondo quanto previsto dal quadro comune europeo per le lingue emanato dal Consiglio d’Europa (cioè, in pratica, salutare, parlare al telefono, chiedere e dare informazioni personali, formulare richieste, descrivere oggetti); 2) “acquisire una sufficiente conoscenza dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica e dell’organizzazione e del funzionamento delle istituzioni pubbliche in Italia”; 3) “Acquisire una sufficiente conoscenza della vita civile in Italia, con particolare riferimento  ai settori della sanità, della scuola, dei servizi sociali, del lavoro e agli obblighi fiscali”; 4) “garantire l’adempimento dell’obbligo di istruzione da parte dei figli minori”.  E’ chiaro che la conoscenza dei punti sopra indicati e l’adempimento dell’obbligo scolastico per i figli siano fatti rilevanti per l’integrazione del migrante “partner” dell’accordo: ma cosa fa l’altro “partner”, cioè lo Stato, per sostenerne il rispetto? Ebbene (art 2, comma 5) “Lo Stato s’impegna a sostenere il processo di integrazione…attraverso l’assunzione di ogni idonea iniziativa in accordo con le regioni, gli enti locali e le organizzazioni senza scopo di lucro…nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente”…Cioè senza metterci un euro (come ribadito nell’art. 14), in un periodo nel quale i bilanci degli enti territoriali subiscono un forte taglio.

         Per la verità lo Stato qualcosa fa: secondo l’art. 3,  entro il mese successivo alla stipula dell’accordo, il migrante deve seguire una sessione (della durata da 5 a 10 ore) gestita a cura dello “sportello unico” (immaginiamo impartito da funzionari della questura o della prefettura, ma non sappiamo in quale lingua…) che gli dovrebbe fornire le conoscenze di cui ai punti 2 e 3.

Attuazione, verifica, conseguenze dell’accordo

         L’accordo si articola in “crediti” (art. 4) a seconda della conoscenza delle varie materie, “certificati a seguito della frequenza con profitto di corsi di istruzione…formazione professionale… studio universitario…ovvero del conseguimento di diplomi o titoli”. I crediti accumulati possono essere decurtati  in caso di provvedimenti giudiziari penali di condanna anche non definitiva o di irrogazione di sanzioni pecuniarie oltre € 10.000. Alla scadenza del biennio (art. 6) di vigenza dell’accordo, lo “sportello” convoca lo straniero il quale deve esibire “la documentazione necessaria ad ottenere il riconoscimento dei crediti”; se il migrante non ne è in possesso può sottoporsi ad un test (gestito dallo “sportello”) per attestare la conoscenza della lingua, della cultura, delle istituzioni. A questo punto si sommano i crediti ottenuti, si decurtano le penalità e se il migrante supera la soglia prestabilita, si dichiara l’accordo “adempiuto” con “rilascio del relativo attestato”.  Se il migrante è sotto la soglia (ma non troppo) l’accordo è prorogato di un anno, cioè il migrante è “rimandato a settembre”.  Se il migrante resta al di sotto di una “soglia minima” avviene “la revoca del permesso di soggiorno o il rifiuto del suo rinnovo e l’espulsione dello straniero dal territorio nazionale”.

         Altre disposizioni riguardano la proroga o la sospensione dell’accordo (artt. 8 e 9); le agevolazioni per “attività formative e culturali” per i migranti con abbondanti crediti (art. 7); l’istituzione di una “anagrafe nazionale degli intestatari degli accordi di integrazione” (cioè di tutti i nuovi migranti) interconnessa con altre basi dati e i casellari (art. 10), le collaborazioni interistituzionali (artt. 11 e 12).
Pagella insufficiente…al legislatore

         Parlare e capire l’italiano, sapere come orientarsi nella società, conoscerne il funzionamento, anche istituzionale: non c’è chi non concordi che si tratta di elementi importanti per il buon inserimento dello straniero nella società che lo accoglie. Detto questo, va subito aggiunto che la via seguita dal Governo in carica è sbagliata, costosa (anche se non un euro è previsto di finanziamento) e confusionaria. Ed ecco perché.

         La prima obiezione è di metodo. Qualora il Paese si dotasse di una politica di ammissione dei migranti basata su un esame serio, chiaro e trasparente delle potenzialità e del “capitale umano” dei candidati, la valutazione delle candidature andrebbe fatta “prima” e non “dopo” l’arrivo del migrante.

         La seconda obiezione ha a che fare con l’idea che il percorso di integrazione debba essere a costo zero e che debbano assumersene l’onere gli enti territoriali, già con l’acqua alla gola. Non basta dettare regole: occorre anche porre le condizioni e investire affinché i requisiti richiesti possano essere raggiunti. L’integrazione costa, ma è un investimento che si ripaga presto con gli interessi

         La terza critica si collega alla seconda: lo “sportello unico” fatica ad espletare i suoi compiti di concessione e rinnovo dei permessi di soggiorno con procedure che possono superare l’anno e – per ammissione unanime – è un fattore primario di inefficienza nella complessa gestione della migrazione. Adesso dovrà gestire centinaia di migliaia di dossier relativi agli accordi d’integrazione in essere, pur essendo sprovvisto delle competenze e delle risorse necessarie (non un euro in più dovrà essere speso).

         Quarta critica: due pesi e due misure. Per gli italiani, la presunzione di innocenza vale fino al terzo grado di giudizio, con depenalizzazioni, prescrizioni, rinvii e chi più ne ha più ne metta. Ma allo straniero basta una condanna in primo grado perché il giudizio di colpevolezza sia emesso, e i crediti decurtati.

         Infine i migranti che hanno ben lavorato e vissuto in pace col prossimo (hanno ben accudito un vecchio inabile, munto il latte con soddisfazione delle mucche e dei loro padroni, innalzato muri e coperto tetti a regola d’arte) ma sanno poco l’italiano e si confondono circa i fondamenti della separazione tra esecutivo, legislativo e giudiziario (confusione che sembra colpire anche eminenti personalità) potranno essere rimandati a casa, anzi “espulsi” dal paese. Ecco in sintesi perché al legislatore, velleitario e confusionario, Potosì assegna una pagella irrimediabilmente insufficiente.

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