Un quadro che continua ad essere preoccupante
“Italy’s demographics look terrible”, scriveva qualche anno fa l’Economist (A survey of Italy, November 26th 2005): “The country has one of the lowest birth rates in western Europe, at an average of 1.3 children per woman, (…) Italians are living ever longer, so it is also ageing rapidly. The economic consequences – too many pensioners, not enough workers to maintain them – are worrying enough on their own”.
Uno sviluppo zoppo se si dimentica la famiglia (*)
I dati recentemente pubblicati dall’Istat (www.demo.istat.it) sembrano apparentemente confermare questo quadro a tinte fosche (anche se, in termini assoluti, la popolazione italiana conta oggi quattro milioni di unità in più rispetto alle previsioni di vent’anni fa). In particolare, il nostro paese continua ad essere uno dei meno prolifici e con più alta proporzione di anziani del mondo occidentale. Mentre altri grandi paesi sviluppati raggiungono livelli di fecondità vicini alla soglia di sostituzione generazionale (2 figli per donna), in Italia si arriva a stento ad un figlio ed un terzo.
Il confronto con la vicina Francia può essere istruttivo. Si tratta di un paese con una consistenza di popolazione simile alla nostra e livelli di longevità paragonabili. La differenza maggiore rispetto all’Italia sta nella loro fecondità sensibilmente più elevata (attorno alla soglia dei 2 figli) e da una storia di immigrazione più consolidata nel tempo. Mentre però dal punto di vista della presenza straniera stiamo rapidamente adeguandoci ai valori francesi, molto più stentato è il percorso della fecondità.
Ciò produce ricadute dirette sulla struttura per età della popolazione. Gli scostamenti più forti tra le due popolazioni si concentrano sotto i 25 anni: i quasi 5 milioni di figli in più messi al mondo dai francesi nell’ultimo quarto di secolo si convertiranno in una forza lavoro numericamente più consistente della nostra quando le generazioni del baby boom (i nati negli anni sessanta) andranno in pensione.
Alcuni segnali incoraggianti
Per riequilibrare uno svantaggio di questo tipo, che rischia di penalizzare fortemente le nostre prospettive di sviluppo nei prossimi decenni, sono varie le risposte che possono essere messe in campo.
(1) Si osservano anche in Italia, finalmente, i primi segnali di aumentata partecipazione al mercato del lavoro di adulti maturi. L’invecchiamento attivo è una scelta obbligata, resa possibile anche dal continuo allungamento della vita in buona salute.
(2) I flussi di immigrazione, particolarmente intensi negli ultimi anni e concentrati fortemente nelle classi lavorative, possono senz’altro contribuire ad alleviare il processo di invecchiamento. Il saldo migratorio netto dell’Italia nell’ultimo decennio è stato superiore a 250 mila unità l’anno. Se questi ritmi proseguiranno, le mancate nascite degli anni ’80 e ’90 potranno, in buona parte, essere “sostituite” da nuovi italiani che vengono da lontano. A questi vanno aggiunti i nati stranieri, che l’anno scorso hanno sfiorato le 60 mila unità (quasi il 15% del totale). Grazie gli immigrati, l’invecchiamento si è sensibilmente rallentato, al contrario di quanto accade in altri paesi – come il Giappone – a fecondità molto bassa, ma con pochi ingressi dall’estero
(3) Una risposta importante arriva anche dall’aumento della forza lavoro femminile. L’aumento dell’occupazione delle donne risponde ad esigenze individuali e familiari, oltre che avere ricadute positive per la crescita economica e sulla sostenibilità della spesa pubblica. In tutto il mondo occidentale sono la netta maggioranza le donne che desiderano realizzarsi anche nel lavoro e nella professione. Inoltre, la moderazione degli stipendi e l’instabilità lavorativa penalizzano oggi più di ieri le famiglie monoreddito con figli, fortemente esposte al rischio di povertà. Il rischio è però quello di un trade off fra lavoro per il mercato e lavoro di cura, in particolare verso i figli e i familiari anziani non autosufficienti. Secondo una recente ricerca Ocse, in Italia il 43% delle donne afferma di non avere un’occupazione a causa degli obblighi di cura ed assistenza, mentre ciò vale solo per il 6% delle finlandesi.
L’importanza della politica
Fondamentale per ridurre tale rischio è il ruolo della politica. In tutta Europa, infatti, dove maggiore è la presenza di servizi per l’infanzia, tendono ad essere più elevate sia la fecondità che l’occupazione femminile. In Italia, la disponibilità di posti negli asili nido supera di poco il 10%, contro il 33% fissato dall’Agenda di Lisbona entro il 2010. Nei 20 mesi del Governo Prodi alcune misure importanti sono state messe in campo. La principale è stata il “piano straordinario asili nido” che ha previsto risorse consistenti per il triennio 2007-2009 (774 milioni di euro, comprensivi anche del cofinanziamento da parte delle Regioni e delle Province autonome) al fine di realizzare oltre 50 mila nuovi posti.
Si tratta di misure importanti, che andrebbero però ulteriormente alimentate visto il ritardo italiano. Particolarmente problematica è la situazione in molte regioni del meridione, dove la copertura di asili nidi non arriva al 5% a fronte spesso di lunghe liste di attesa. Non a caso il Sud risulta attualmente non solo una delle aree dell’Europa occidentale con più bassa occupazione femminile (poco superiore al 30%) ma anche con più bassa fecondità (1,30 figli per donna secondo le ultime stime Istat). Parallelamente ai servizi per l’infanzia, soprattutto per il Mezzogiorno sono stati anche introdotti incentivi all’assunzione tramite agevolazioni fiscali per le imprese. Favorire l’entrata e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro senza disincentivare la formazione di una famiglia con figli è uno dei nodi più importanti dello sviluppo economico e sociale del paese.
L’occupazione femminile è frenata anche dalla necessità di accudire gli anziani non autosufficienti. Gli attuali livelli di tutela ed assistenza pubblica sono bassi e fortemente disomogenei sul territorio italiano. A questo proposito con la Finanziaria 2007 è stato istituito il “Fondo nazionale per le non autosufficienze” con una dotazione iniziale di 100 milioni di euro per il 2007 e 200 milioni per ciascun anno del biennio 2008-09. Si tratta di un primo passo per offrire livelli essenziali di prestazioni assistenziali su tutto il territorio nazionale, con misure però senza dubbio insufficienti, come riconosciuto dallo stesso Ministro Bindi. Va aggiunto che il Ministero delle Politiche per la Famiglia ha anche avviato una riflessione sulla possibilità di sostenere forme di welfare comunitario (associazioni di auto-aiuto fra famiglie, altre forme cooperative, micro-nidi domestici…) oltre che per rendere meno “selvaggio” il fenomeno – tutto italiano – della “badanti” straniere. Un rischio è che gli interessi delle donne e dei bambini siano visti come competitivi rispetto a quelli di altri soggetti, ad esempio dei proprietari di casa, dei lavoratori dipendenti, eccetera. È quanto è avvenuto con l’ultima legge finanziaria, quando si è preferito intervenire sull’ICI piuttosto che incentivare gli assegni familiari. Dimenticare la famiglia è un grosso errore, che l’Italia rischia di pagare sempre più caro.
Su tutti questi temi, chiunque sia a ricoprire responsabilità di governo dopo le prossime elezioni, il lavoro scientifico svolto in occasione della Conferenza Nazionale sulla Famiglia non deve essere dimenticato (www.conferenzanazionalesullafamiglia.it). Non è possibile ogni volta partire dall’anno zero per le politiche familiari, riconosciute come sempre più cruciali per lo sviluppo del paese.
(*)L’articolo è presente anche su www.nelmerito.com
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