Prendendo a pretesto la recente moratoria ONU sulla pena di morte, si torna a discutere in Italia di aborto e della legge 194/1978 che ha introdotto e regolamentato l’interruzione volontaria della gravidanza nel nostro Paese. Sarebbe bene che la discussione avvenisse avendo come protagoniste le donne: non per adeguarsi a certi slogan vetero-femministi, ma perché sono le donne a vivere in prima persona quello che in ogni caso rappresenta un dramma nella loro vita affettiva e perché sarebbero loro, più di tutti, a subire le conseguenze di una nascita non desiderata. Nel dibattito in corso si tende a mettere sullo stesso piano i problemi terzomondiali dell’aborto come strumento di controllo delle nascite o di selezione eugenetica e per genere con gli aspetti normativi e di applicazione della legge 194 nel nostro Paese, e questa confusione, probabilmente provocata ad arte, non giova alla chiarezza nella discussione.
In questo articolo, sulla scorta dei dati da poco pubblicati dall’Istat
[1], si cercherà di fornire un quadro statistico del fenomeno in Italia nella sua evoluzione temporale tra il 1985 ed il 2004 e nelle caratteristiche più recenti.
Un andamento non del tutto rassicurante
Il numero di interruzioni volontarie della gravidanza (da ora in avanti, aborti) si è ridotto da circa 210 mila nel 1985 a meno di 140 mila nell’ultimo anno disponibile (2004), con una riduzione di più di un terzo. Tuttavia, come mostra la figura 1 dove i dati sottorilevati in alcuni anni e regioni sono stati da noi stimati, questo andamento alla riduzione non è stato continuo: nei primi nove anni il calo è stato in media del 4,5% annuo; il periodo successivo ha visto piccole riprese ed ulteriori piccoli cali, fino a toccare nel 2001 e nel 2003 un minimo stimabile in 132 mila aborti; il 2004 avrebbe segnato di nuovo una piccola ripresa.
L’andamento dei primi anni sembra rafforzare le tesi di coloro che attribuiscono alla 194 il merito di aver fatto prima venire allo scoperto le migliaia di aborti clandestini che avvenivano in regime di divieto, poi di aver reso le donne sempre più consapevoli che l’aborto non è un metodo desiderabile per controllare la propria fecondità. I livelli – si tratta pur sempre di 1 aborto ogni 5 concepimenti – e gli andamenti successivi meritano però qualche approfondimento allo scopo di capire chi sono le donne che interrompono una gravidanza per loro scelta.
Una quota crescente di donne giovani
Nel 1985, meno di un quarto degli aborti avveniva prima dei 25 anni, dal 2000 in poi è appena un po’ più di un terzo, cosicché l’età media delle donne che hanno abortito volontariamente si è ridotta da 30,4 anni a 29,1 tra il 1985 ed il 2004
[2]. Siamo lontani dalle proporzioni che l’abortività giovanile assume in altri Paesi sviluppati come l’Inghilterra e gli USA
[3], ma lo spostamento del fenomeno verso le età giovani dà una prima indicazione sul progressivo abbandono, nel nostro Paese, dell’aborto come mezzo per contenere il numero di figli all’interno delle famiglie ed il prevalere di un ricorso ad esso per evitare invece una gravidanza e una nascita in condizioni di difficoltà della donna.
Ciò appare evidente in figura 2, dove è riportata la misura del tasso di abortività totale, cioè il numero medio di aborti per donna nell’arco di tutta la sua vita riproduttiva (15-49 anni)
[4], suddiviso per i contributi delle diverse classi di età quinquennali. Si vede, intanto, che mediamente solo una donna su tre abortisce (e una sola volta) nell’arco della sua vita, contro una su due nel 1985: si tratta di valori abbastanza contenuti, che sembrano avvicinarsi più alla fisiologia che non alla patologia del fenomeno.
Le riduzioni dei primi dieci anni sono dipese soprattutto da un progressivo calo del ricorso all’aborto da parte delle donne al di sopra dei 25 anni, mentre le piccole riprese recenti provengono in primo luogo dagli aumenti nelle età giovani (20-25 anni: +2,2% medio annuo negli ultimi dieci anni) e giovanissime (15-19 anni: +2,6%). Si tratta di una tendenza che, per quanto limitata, dovrebbe preoccupare e che chiama a una maggior attenzione sul tema della sessualità tra i giovani, soprattutto in famiglia e nelle scuole.
Le donne più esposte
Il progressivo abbandono dell’aborto come strumento di controllo della fecondità nel matrimonio è reso ancor più evidente dai dati di tabella 1. Il numero di aborti volontari ogni 1.000 coniugate, già al di sotto del 10‰ fin dal 1994, è ulteriormente calato ed è stato superato dal tasso relativo alle nubili, anche in correlazione con il già sottolineato ringiovanimento del fenomeno. Ma i livelli più elevati (più di due volte e mezzo di quelli delle nubili e delle coniugate), in crescita negli ultimi dieci anni, riguardano le donne separate, divorziate o vedove. Le particolari condizioni di difficoltà che devono in genere affrontare queste donne rischiano di aggravarsi con la nascita di un figlio da allevare e mantenere presumibilmente da sole.
Tabella 1 – Tasso di abortività per stato civile: Italia, 1994-2004 (valori per 1.000 donne)
Anno
|
Nubile
|
Coniugata
|
Separata, divorziata o vedova
|
Totale
|
1994
|
8,7
|
9,3
|
21,8
|
9,5
|
1995
|
8,8
|
9,1
|
20,8
|
9,3
|
1996
|
9,2
|
9,3
|
22,1
|
9,4
|
1997
|
9,4
|
9,0
|
23,1
|
9,5
|
1998
|
9,7
|
8,7
|
23,4
|
9,4
|
1999
|
10,0
|
8,6
|
23,9
|
9,5
|
2000
|
9,7
|
8,2
|
23,7
|
9,3
|
2001
|
9,7
|
7,9
|
23,9
|
9,1
|
2002
|
9,9
|
7,9
|
24,4
|
9,3
|
2003
|
10,0
|
7,6
|
24,3
|
9,3
|
2004
|
10,1
|
8,1
|
25,7
|
9,7
|
Fonte: elaborazioni su dati Istat, L’interruzione di gravidanza in Italia, 2007
Altre caratteristiche qualificanti
Dall’insieme dei dati messi a disposizione dall’Istat ed in parte rielaborati in tabella 2 sembra emergere una doppia tipologia di donne che sono ricorse all’aborto volontario nel corso del 2004: un gruppo residuale di donne, soprattutto coniugate, di più basso livello di istruzione e meno impegnate in attività lavorative esterne, che ricorre ancora all’aborto per limitare la propria discendenza; ed un gruppo in crescita di donne più istruite ed attive che, davanti ad un concepimento indesiderato, sceglie di abortire in considerazione del proprio stato civile e del carico di impegni che deve già sostenere. Per entrambi i gruppi, tuttavia, non sembra che il ricorso all’aborto sia abituale, se solo da meno di un quarto a molto meno di un terzo hanno precedenti esperienze di interruzione volontaria della gravidanza. Le caratteristiche d’insieme per le donne che hanno abortito nel 2004 danno un livello di istruzione un po’ inferiore alla media delle donne italiane (45,7% con almeno il diploma di scuola superiore contro il 52,4%) ed un inserimento nel mercato del lavoro appena un po’ superiore (61,6% contro il 58,0%).
Tab. 2 – Alcune caratteristiche delle donne di 15-49 anni che hanno interrotto volontariamente una gravidanza nel 2004: Italia
Caratteristiche delle donne che hanno interrotto volontariamente una gravidanza nel 2004
|
Stato civile
|
Totale
|
Nubili
|
Coniugate
|
Altro (*)
|
Distribuzione per stato civile (%)
|
48,7
|
50,1
|
1,1
|
100,0
|
Con istruzione superiore (diploma di scuola secondaria o più elevato) (%)
|
54,5
|
46,0
|
44,5
|
45,7
|
In condizione lavorativa (occupata o in cerca di lavoro) (%)
|
74,4
|
50,8
|
75,5
|
61,6
|
Senza precedenti interruzioni volontarie di gravidanza (%)
|
76,6
|
73,2
|
71,5
|
75,6
|
Numero medio di figli avuti
|
0,5
|
1,5
|
1,1
|
1,
|
(*) Separate, divorziate o vedove + stato civile non indicato (0,6%)
N.B.: L’effetto della differente struttura per età è stato eliminato tramite standardizzazione.
Fonte: elaborazioni su dati Istat, L’interruzione di gravidanza in Italia, 2007
Infine: sulla recente evoluzione del fenomeno delle IVG pesano, presumibilmente molto, gli aborti effettuati in Italia da cittadine di altri Paesi, in massima parte presumibilmente immigrate (
cfr. Mencarini ). Nel 2004, ad esempio, le residenti straniere in età feconda, pari solo al 6% della corrispondente popolazione femminile, hanno dato vita all’11,5% delle nascite e a quasi un quarto degli aborti.
L’aborto volontario rimane dunque in Italia un fenomeno di una certa consistenza, che stenta a ridursi ulteriormente perché al sempre più ridotto ricorso come strumento di controllo della discendenza da parte delle italiane (
cfr. Mencarini ), soprattutto se coniugate, va subentrando il suo utilizzo per evitare gravidanze da parte di donne che per la loro età, stato civile, condizioni di vita, cittadinanza avrebbero particolari difficoltà a portare avanti, così come, poi, a sostenere l’allevamento del neonato.
I dati evidenziano alcune carenze strutturali, normative e culturali che ancora limitano consapevolezza e pratica di una sessualità responsabile. Le tesi antiabortiste, anche quando sono basate su autentiche convinzioni religiosi e morali, se fossero tradotte in abrogazioni finirebbero per colpire soprattutto le donne non coniugate, o comunque più deboli, e più esposte al rischio di gravidanze indesiderate, e forse non sostenibili..
[1] Istat,
L’interruzione di gravidanza in Italia, diffuso il 7 dicembre 2007. Accanto a un’analisi temporale del fenomeno, riferita agli anni 1985-2004, i dati e gli indicatori per l’anno più recente (2004) sono presentati a livello nazionale e a livello di dettaglio regionale e provinciale. V.
http://www.istat.it/dati/dataset/20071207_00/
[2] Le misure sono standardizzate rispetto alla struttura per età delle donne tra 15 e 49 anni.
[3] Quasi la metà degli aborti legali in Inghilterra e Galles e poco più della metà negli USA sono praticati su donne in età inferiore ai 25 anni.
[4] Rimangono così esclusi gli aborti praticati su ragazze molto giovani, minori di 15 anni, che nel 2004 sono stati 259, e su donne ultracinquantenni, che nelle statistiche relative al 2004 corrispondono a 23 casi.