La pubblicazione della voce “Matrimonio”, da me curata per i volumi di aggiornamento dell’Enciclopedia Italiana Treccani, ha temporanemente riacceso i riflettori sul delicato tema delle coppie di fatto e del loro riconoscimento giuridico.
Nel turbinio di commenti seguiti alla diramazione del comunicato stampa della Treccani sono anche stati sollevati dubbi circa l’opportunità, da parte di un demografo, di occuparsi di questo fenomeno – almeno in Italia ancora relativamente poco diffuso – in un lavoro dedicato al matrimonio. La critica diventa uno stimolo per ulteriori riflessioni.
Che cos’è un matrimonio?
La definizione più comune del termine “matrimonio” è quella di unione socialmente riconosciuta tra un uomo e una donna. Ma le forme in cui avviene la sanzione del legame e la sua visibilità di fronte alla comunità di appartenenza sono mutevoli nel corso del tempo e diversificate tra le diverse aree del mondo. Per esempio, nel mondo cattolico la regolamentazione del sacramento del matrimonio religioso è avvenuta in tempi relativamente recenti, con il Concilio di Trento (1545-1563), mentre in Italia il riconoscimento del suo valore giuridico risale al 1929, con i Patti Lateranensi. In altre culture si osservano rituali diversi, anche estremamente semplici e apparentemente informali, oppure sono consentite strutture più articolate come la poligamia, ancora ammessa da alcuni ordinamenti giuridici. In qualunque modo avvenga, il riconoscimento e la disciplina dell’unione fisica e morale tra due individui che vivono in comunione ed in costanza di rapporti sessuali sono sempre messi in relazionecon gli effetti prodotti dall’unione stessa: formazione di una famiglia, ripartizione di diritti e doveri tra i partner, gestione patrimoniale, nonché procreazione di figli e loro allevamento.
Matrimonio e figli
La funzione riproduttiva della famiglia rappresenta per il demografo il principale motivo di interesse per i comportamenti coniugali degli individui, dal momento che la natalità – il primo motore della crescita demografica di una popolazione – opera da sempre e ovunque alla sua massima potenza proprio all’interno della cornice matrimoniale. Quanto più la collettività, attraverso le sue norme ed i suoi istituti, facilita la formazione di nuove famiglie e ne tutela gli effetti, tanto più l’unione diventa un contesto socialmente idoneo e favorevole alla riproduzione.
In questo senso, in Europa, il modello classico di matrimonio – con valore legale e fondato su un rito civile e/o religioso – è stato a lungo la forma largamente più diffusa e accettata di vita familiare. Intorno alla metà del secolo scorso, tuttavia, hanno cominciato a manifestarsi segni di cambiamento, con un progressivo calo del numero dei matrimoni, e uno spostamento in avanti dell’età alla quale i giovani si sposano e “mettono su famiglia”.
Mentre nei paesi dell’Europa nordoccidentale e continentale al calo dei matrimonio ha corrisposto una diffusione crescente delle unioni di fatto, non sancite da un atto formale religioso o giuridico, che hanno almeno in parte rimpiazzato i matrimoni anche in quanto contesto favorevole alla fecondità (tab. 1; figg. 1 e 2), nei paesi dell’Europa meridionale ciò è accaduto in misura molto più contenuta. In Italia, ad esempio, le coppie di fattocostituiscono una netta minoranza: sono poco più di 500 mila, pari a circa il 4% del totale delle coppie, e poco contribuiscono al recupero dei matrimoni “persi”. Poiché tuttavia anche in Italia aumentano le coppie di fatto e cresce la quota di nascite fuori dal matrimonio è naturale che gli studiosi dedichino particolare attenzione al fenomeno.
Tabella 1 – Donne di età 35-39 anni in coppia per tipo di unione in alcuni paesi europei (distribuzione percentuale per peaese)
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Matrimonio diretto
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Matrimonio preceduto da convivenza
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Unione di fatto
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Totale
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Svezia
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8
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62
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30
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100
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Regno Unito
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72
|
18
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10
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100
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Francia
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55
|
33
|
12
|
100
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Germania
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38
|
33
|
29
|
100
|
Spagna
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91
|
4
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5
|
100
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Italia
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91
|
5
|
4
|
100
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Fonte: UNECE (United Nations Economic Commission for Europe), Dynamics of Fertility and Partnership in Europe.
Insight and Lessons from Comparative Research, Ginevra, 2002
Le unioni di fatto di fronte alla legge: in Europa …
Tra le spiegazioni della lenta diffusione delle famiglie di fatto, un ruolo importante è giocato dal contesto istituzionale, a sua volta influenzato da quello culturale e sociale che condiziona anche nella sfera familiare le scelte e le opportunità degli individui. Il confronto internazionale fa emergere il ritardo con cui in Italia e in pochi altri paesi in Europa (Austria, Grecia, Irlanda, Polonia e Romania) si sta affrontando il problema delle tutele delle unioni di fatto. Nei paesi scandinavi, all’avanguardia nel riconoscimento dei diritti civili, già dagli anni Ottanta l’unione di fatto gode di uno status giuridico molto simile al matrimonio, tanto nel campo fiscale e della sicurezza sociale, che in quello patrimoniale. Nell’Europa continentale, dove l’attenzione è più recente, si è puntato, piuttosto che a regolamentare la famiglia di fatto in quanto istituzione, ad assicurare ai partner conviventi diritti e doveri reciproci analoghi a quelli dei coniugi. Il caso più emblematico è quello della Francia dove nel 1999 sono stati introdotti i Patti civili di solidarietà (PACS); ma in gran parte dei paesi membri dell’Unione Europea si stanno compiendo passi importanti verso il riconoscimento pubblico della famiglia di fatto, ottemperando al principio espresso nell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea approvata a Nizza nel 2000, che riconosce il diritto al matrimonio e il diritto a formare una famiglia come diritti distinti, e suggerisce dunque l’opportunità di rimozione degli ostacoli alla formazione di una famiglia anche per coloro i quali non intendano ricorrere al rito matrimoniale per sanzionare la loro unione.
… e in Italia
L’ordinamento italiano, che costituzionalmente riconosce solo i diritti della famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.), omette allo stato attuale di offrire soluzioni giuridiche a situazioni ed esigenze che riguardano un numero sempre maggiore di cittadini che non vogliono o non possono sposarsi. Il disegno di legge recentemente proposto per la regolamentazione delle unioni civili, il cosiddetto “Dico”, approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 8 febbraio, è fermo all’iniziativa parlamentare (V., per esempio,
Giuseppe Gesano e
Livi Bacci).
Il vuoto legislativo è in parte colmato dall’evoluzione giurisprudenziale che, come spesso accade, anticipa il legislatore nell’accogliere e interpretare certe istanze sociali. In assenza di una normativa di quadro, infatti, la giurisprudenza si sta arricchendo di sentenze con le quali il giudice interviene a definire i numerosi aspetti problematici o conflittuali, di natura patrimoniale o legati al mantenimento e all’educazione di figli, che insorgono in caso di morte di uno dei partner o di rottura della convivenza.
La pratica amministrativa contribuisce a sua volta a spianare la strada del legislatore: numerosi Comuni, infatti, tra cui Bologna, Firenze, Padova, Ferrara, Perugia e Bagheria (PA), hanno istituito il Registro per le unioni civili; i nuovi Statuti delle Regioni Toscana, Umbria ed Emilia Romagna, inoltre, affermano esplicitamente il riconoscimento della pari dignità sociale delle persone, senza alcuna discriminazione.
Anche i timidi accenni all’estensione alle coppie omosessuali di molte delle tutele previste per i partner eterosessuali delle unioni di fatto sono testimonianza di un movimento che si sforza di riconoscere le nuove frontiere dei diritti e dei doveri dei conviventi, nel rispetto dei principi di uno Stato laico e democratico. Ed è proprio tale riconoscimento che pare costituire un contesto favorevole alla famiglia ed procreazione, come dimostrano i dati sulle nascite in aumento nei paesi del Nord d’Europa.
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