Italiani di oggi e di domani
Il disegno di legge di modifica della normativa relativa alla concessione della cittadinanza approvato dal governo lo scorso agosto, rappresenta un altro importante tassello alla revisione della politica migratoria. Il provvedimento è relativo a uno degli aspetti chiave del rapporto tra immigrati e società d’arrivo: dopo quanto tempo, o al verificarsi di quali condizioni, l’immigrato cessa di essere “straniero” e diventa “uno di noi”?
Quattro novità
Rispetto alla normativa in vigore (L. 91 del 1992), le novità principali del disegno di legge appaiono quattro:
1) cittadinanza concessa ai figli degli immigrati nati in Italia a condizione che almeno uno dei genitori abbia risieduto nel nostro paese nei 5 anni precedenti la nascita (è un allargamento del principio dello ius soli, attualmente contemplato solo in alcune situazioni marginali);
2) dimezzamento, da dieci a cinque anni, del periodo di residenza necessario per poter richiedere la naturalizzazione;
3) introduzione di una verifica della conoscenza della lingua e della cultura italiana, oggi non prevista;
4) allungamento da 6 mesi a 2 anni del tempo necessario a maturare il diritto alla cittadinanza per matrimonio.
Queste modifiche rispondono all’esigenza, segnalata da più di un osservatore in questi anni, di adeguare la nostra normativa alle necessità di quello che è ormai diventato uno dei principali paesi d’immigrazione d’Europa. In effetti la legge del 1992 aveva confermato e, per certi versi, rafforzato una concezione etnica della cittadinanza, in totale controtendenza, per altro, rispetto al dibattito allora in corso sulla trasformazione dell’Italia da paese d’emigrazione a paese d’immigrazione.
L’opinione degli italiani
Un’indagine d’opinione condotta dall’IRPPS del CNR alla fine del 2002 ha evidenziato l’esistenza di un largo favore tra la popolazione verso una drastica riduzione dei tempi di residenza necessari alla naturalizzazione[1]. In quel sondaggio, infatti, quasi il 72% degli intervistati si è dichiarato a favore alla concessione della cittadinanza dopo cinque anni di residenza, mentre i contrari sono stati appena il 25% del campione, e il restante 3% non ha espresso una propria opinione. L’aspetto più interessante dei risultati è comunque dato dai livelli elevati di gradimento verso l’intervento anche nei gruppi generalmente meno favorevoli all’immigrazione: le differenze per età, genere, livello d’istruzione, area di residenza e professione risultano, difatti, molto più limitate di quanto non avvenga per gli altri aspetti analizzati dall’indagine. Molte forte è, ovviamente, risultata l’associazione tra le risposte al sondaggio e lo schieramento politico in cui gli intervistati si sono autocollocati. Ma se il favore è arrivato all’80% per quanti si sono dichiarati di sinistra è pur sempre rimasto su livelli di tutto rispetto e largamente maggioritari anche tra coloro che si sono collocati a destra (66,6%) o al centro-destra (65%) dello schieramento politico. Sono dati che mostrano l’esistenzadi un margine di manovra sufficiente a far approvare il provvedimento con il favore della pubblica opinione.
I tempi di attesa
Se la normativa verrà approvata, il numero degli stranieri che acquisiranno direttamente la cittadinanza per nascita o che matureranno il diritto per chiedere la naturalizzazione ordinaria è inevitabilmente destinato a crescere[2]. Un tentativo di stimare di quanto in futuro sarebbe aumentato il numero di stranieri con almeno dieci anni di residenza aveva individuato un trend decisamente crescente nei prossimi anni, con un picco di grande consistenza nel biennio 2013-14 in cui si sarebbero aggiunte all’aggregato 500 mila “nuove” unità. E’ evidente che una riduzione dei tempi di residenza da dieci a cinque anni comporta un corrispondente anticipo di questo picco al 2008-09. E’ difficile pensare che un aumento di questa intensità negli aventi diritto non si rifletta anche in un incremento delle domande presentate, tendenza per altro registrata già in questi anni con la normativa attualmente in vigore. Sinora l’aumento delle domande sembra aver comportato un incremento del tempo medio necessario alla definizione delle pratiche, con una crescita al momento quantificabile in 0,6 anni per quelle con esito favorevole, ma che è destinata ad aumentare ancora visto che l’iter non è ancora finito per molte domande. Valutare con precisione le dimensioni e le tendenze dell’aggregato dei potenziali beneficiari appare un’operazione di buon senso, non tanto per calibrare i requisiti della nuova normativa alla “domanda” potenziale quanto, piuttosto, per individuare le risorse necessarie a consentire una piena applicazione dei cambiamenti introdotti evitando che la riduzione dei tempi di residenza venga in parte vanificata da una dilatazione di quelli burocratici.
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