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Le mosse per vincere la partita delle pensioni

Sulle pensioni si gioca, in tutto il mondo sviluppato, una partita complessa e difficile, che ha radici lontane. Nei due o tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale la crescita economica era accompagnata da una demografia favorevole: pochi anziani, molti giovani e una forza di lavoro in espansione. Purtroppo le regole pensionistiche che allora si misero in atto furono larghe quanto poco lungimiranti. Dagli inizi degli anni ’80 la piramide delle età è andata progressivamente deformandosi per la diminuzione della natalità e dei giovani, il ristagno della forza di lavoro e la rapida crescita degli anziani. A questo terremoto, hanno risposto – in genere con ritardo – aggiustamenti più o meno radicali dei sistemi pensionistici. In Italia, la riforma Dini, con i successivi aggiustamenti, ha affrontato il problema nel verso giusto, ma con un regime di transizione molto graduale: nonostante la buona riforma, l’Italia spende per le pensioni (in percentuale del PIL) assai di più degli altri paesi europei, cosicché resta disponibile, per altri trasferimenti necessari (sanità, assistenza, famiglia), meno che altrove. Da qui la necessità di ulteriori correttivi, tra i quali spicca – anche per il suo potere simbolico – l’aumento dell’età minima per la pensione di vecchiaia, oggi posta a 57 anni, ma che la riforma operata dal precedente governo innalzerebbe (di botto, tra gli altri botti, nella notte di San Silvestro del 2007) a 60 anni. L’abbassamento dell’età alla pensione è stato percepito, per un buon secolo, come una conquista sociale e di civiltà: come fare accettare l’idea che pur stando meglio, si deve “tornare indietro”, e rinunciarvi? Come spiegare, a chi ha cominciato presto a lavorare, magari facendo lavori pesanti e sgradevoli, che il traguardo da raggiungere è stato spostato in avanti? Come convincere che i programmi di vita vanno rivisti? Come spiegare tutto questo, inoltre, in un contesto nel quale le disuguaglianze economiche sono, in tempi recenti, aumentate? E’ questo il problema politico dei sindacati.
Eppure di buone ragioni ce ne sono più d’una, ma il loro potere di convincimento, sufficiente per accettare i lenti cambiamenti, è scarso di fronte ad improvvisi balzi come quello che avverrebbe tra poco più di un anno. La durata della vita, infatti tra il 1961 e il 2005 è cresciuta di 11 anni (fino a 78 anni per gli uomini e 83 per le donne) e questo aumento è avvenuto guadagnando anni di vita in buona salute. Supponiamo che un sistema pensionistico “preveda” di accantonare una determinata somma per fornire un determinato reddito “x” (pensione) ad una generazione che abbandona il lavoro e, si presume, debba campare ancora 20 anni. Poniamo adesso che quella generazione abbia la buona sorte di campare 25. E’ ovvio che la somma prevista non basta più a fornire quel reddito “x”: o si stanzia di più o si abbassa la pensione.La riforma Dini prevede un meccanismo per aggiustare la pensione, ogni dieci anni, in funzione dell’aumento della longevità: ma alla scadenza del decennio, nel 2005, nulla si è fatto in proposito. Un’altra buona ragione per innalzare l’età alla pensione sta nel fatto che il lavoro si è progressivamente liberato del fardello di fatiche e pericoli per la salute che prima lo opprimeva.. Chi abbandona il lavoro lo fa in condizioni di “usura” fisica assai minore che nel passato. Infine – e questa è la terza buona ragione – viene da tutti accettato il mantra che la vecchiaia “attiva” è buona per la salute fisica e psichica, e che oltre alla pesca, al giardinaggio, alla cura dei nipotini, allo sport, anche l’attività lavorativa fa bene.
Il Governo si è orientato ad affrontare lo spinoso tema pensionistico fuori dell’urgenza della finanziaria. L’aumento della durata della vita attiva, e quindi dell’età media alla pensione, non può non essere al centro dei futuri interventi: lo richiede la contabilità, ma lo richiede anche lo sviluppo. l’Italia invecchia più degli paesi e, per paradosso, è anche il paese nel quale gli anziani lavorano di meno. Ma nell’orientarsi in questa direzione, occorrerà tener presente due fondamentali considerazioni. La prima è che l’aumento dell’età alla pensione è necessario per riequilibrare una distorsione accumulata nel passato: nell’ultimo mezzo secolo si è aperta la forbice tra longevità in aumento ed età alla pensione in diminuzione. Tuttavia gli aggiustamenti richiesti per le future generazioni saranno forse minori di quanto non si pensi. C’è un ingiustificato ottimismo circa la possibilità di estensione della durata della vita, che dipende non solo dai progressi scientifici e tecnologici, ma anche dalla capacità di mantenere sistemi sanitari universali ed efficienti che vanno continuamente aggiornandosi e con costi tendenzialmente crescenti. Gli effetti sulla longevità non possono che essere decrescenti. Tra il 1995 e il 2005 (il decennio rispetto al quale dovrebbero operare i meccanismi di revisione della Dini) la speranza di vita a 60 anni è cresciuta 19 a 21,2 anni per gli uomini e da 23,8 a 25,2 per le donne, con un forte rallentamento (velocità dimezzata) tra il 2000 e il 2005 rispetto al quinquennio precedente. E’ plausibile che nel prossimo decennio questo prosegua e che l’aggiustamento attuariale necessario possa essere assai minore).
La seconda considerazione riguarda la grande variabilità delle situazioni individuali in termini di reddito, di bisogno, di condizioni di salute. Una variabilità che impone di porre la volontarietà al centro dell’azione per alzare l’età alla pensione. Prendo, tra tanti, un indicatore significativo: la condizione di salute percepita (indagine ISTAT del 1999). Nella fascia di età tra i 55 e i 64 anni, una persona su 10 indica di star “male o molto male”; 5 su 10 stanno “discretamente”; 4 su 10 “bene o molto bene”. Tra i 65 e i 75 anni, le proporzioni variano rispettivamente a 2, 6 e 2. Simili risultati si ottengono se si guarda la prevalenza delle disabilità o delle malattie croniche. Immaginiamo di combinare le condizioni di salute con quelle di reddito, con l’organizzazione familiare, con le inclinazioni psicologiche, e risulta chiaro che la collettività si dispone in un ventaglio ampio (la cui ampiezza cresce con l’età) di situazioni individuali che si traduce in una variabile propensione al lavoro od alla quiescenza. Limiti rigidi e uguali per tutti non convengono ad una società così variegata.

(Editoriale pubblicato su “La Repubblica” il 13 Ottobre 2006)

Speranza di vita a 60 anni

 

Anno

 

Maschi
Femmine
1961

 

16,7

 

19,3

 

1971

 

16,7

 

20,2

 

1981

 

17,0

 

21,4

 

1991

 

18,7

 

23,2

 

1995

 

19,0

 

23,8

 

2000

 

20,4

 

24,9

 

2001

 

20,8

 

25,1

 

2002

 

20,8

 

25,2

 

2005

 

21,2

 

25.2

 

2005: stima

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