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Figli e pensioni

La proposta di Alessandro Cigno su “Una possibile riforma del sistema previdenziale” non può non colpire specialmente noi demografi, sempre preoccupati dei bassi livelli della nostra fecondità e spesso combattuti o delusi dall’efficacia delle misure pro-nataliste che vengono sperimentate.
Proposta pro-natalista o d’equilibrio pensionistico?
Così come per altre proposte sul tema, si tratta in realtà di un rilevante intervento sul sistema di calcolo della pensione, su un terreno dove la razionalità delle innovazioni è costretta a fare i conti con l’ampio campo di forze espresso da una pluralità di soggetti, collettivi e individuali, che pretendono, ciascuno, di mantenere i propri “diritti acquisiti” o di far prevalere, alternativamente, l’impostazione attuariale del sistema previdenziale in contrapposizione a quella di strumento di politica sociale.
La razionalità della proposta Cigno è indirizzata a rafforzare il primo tipo di impostazione, facendo rientrare nel calcolo dei futuri benefici pensionistici non solo il valore cumulato dalla quota del PIL prodotto dal lavoratore conteggiata nei contributi versati, ma anche il valore attuale della capacità reddituale dei suoi figli, stimata dallo Stato “sulla base di dati osservabili, come ad esempio titolo di studio conseguito, settore di attività, guadagni effettivamente realizzati fino a questo momento, ecc.”. Ciò permetterebbe a un lavoratore, e ancor più a una lavoratrice – s’immagina – di decidere se impegnare parte della propria vita lavorativa ad avere e allevare figli e a investire sulla loro preparazione, senza per ciò perdere in diritti nel calcolo della pensione che si percepirà alla fine della propria vita lavorativa. Come effetto collettivo desiderato di quelle scelte individuali dovrebbe conseguirne un rialzo della fecondità non più depressa dal welfare state, soprattutto se questo è in grande prevalenza indirizzato verso la componente previdenziale, come è in Italia.
Un presupposto discutibile
Come riconosce lo stesso Cigno, non sembra “… ovvio se l’effetto complessivo del welfare state sia quello di indurre i genitori ad avere troppi figli, o troppo pochi”. Alla fine, però, prevarrebbe l’effetto depressivo: è quanto si dovrebbe dedurre dallo studio di Mikko Puhakka e Matti Viren “Is the Fertility Decline a Consequence of the Growth of the Welfare State? Evidence from Historical Data”, pubblicato nel 2006 negli European Papers on the New Welfare – The counter-ageing society (http://www.newwelfare.org/eng/wp-content/pdf/N6.pdf), pp. 46-52, dal quale sono tratti i due grafici che pongono in relazione la quota di PIL in spesa sociale e in spesa pensionistica con il tasso di fecondità totale (TFT) “in alcuni paesi sviluppati”, come recita il titolo riportato nell’articolo di Cigno.
Già la relazione cercata lascia perplessi, così come avviene per tante altre correlazioni possibili tra i livelli della fecondità e altre variabili che esprimono modelli di vita moderni. Ma la perplessità diventa incredulità quando ci si accorge che vi sono rappresentati “paesi sviluppati” il cui TFT sarebbe tra i 2,2 ed i 2,8 figli per donna: allo stato attuale (2000-2005), tra questi solo gli USA superano, e di pochissimo, i due figli per donna.
In realtà, i grafici originali sono costruiti sui dati MZES (Mannheimer Zentrum für Europäische Sozialforschung) relativi al periodo1949-1993 (sic!) e, quindi, nelle relazioni che i grafici pretenderebbero di evidenziare, insieme alle differenze sincroniche tra Paesi sono anche considerate le evoluzioni registrate da questi nel tempo: un pooling di dati alquanto discutibile dal punto di vista statistico, perché nella ricerca di un’unica relazione si confondono i confronti tra Paesi nei vari momenti con i processi evolutivi che sono avvenuti in ciascun Paese. E che le cose stiano così si nota anche da una semplice ispezione dei grafici, dove si contrappongono almeno due cluster distinti, quasi certamente prodotti da due riferimenti temporali assai distanti tra loro; se poi si guarda separatamente all’interno di ciascun cluster diventa molto più difficile individuare una correlazione negativa tra spese sociali o previdenziali e TFT.
Riforme pensionistiche e storie personali
Ma torniamo alla sostanza della proposta Cigno. Mentre potrebbe sembrare assolutamente da condividere al fine di un’equità a posteriori nei confronti di chi ha sacrificato parte della propria vita e della propria carriera per quella dei propri figli, mi sembra improbabile che la promessa di una pensione per ciò più favorevole, che si percepirà non prima dei sessant’anni, possa rientrare a priori nelle scelte procreative che si fanno intorno ai trent’anni. Se è vero che nell’alta fecondità del nostro passato e dei Paesi meno sviluppati vi è una componente collegata alle speranze di futura assistenza che i genitori nutrono nei confronti dei figli messi al mondo, nei Paesi dotati di validi sistemi previdenziali le scelte sul numero e la “qualità” dei propri figli avvengono su variabili del tutto diverse, molto più collegate con le condizioni e le attese pertinenti all’età procreativa. Anzi, più di uno studio ha dimostrato che, all’inverso, sistemi pensionistici molto generosi nei confronti dei genitori possono favorire o almeno anticipare le scelte procreative dei loro figli.
C’è inoltre nella proposta Cigno una deriva che l’accomuna ad altre proposte di riforma previdenziale: la tendenza a rendere i benefici pensionistici sempre più dipendenti dalla storia personale di ciascun individuo; in questo caso, persino da quella “futura”, condensata nel successo lavorativo atteso dei suoi figli. Mi sembra una deriva pericolosa, anche e proprio perché giustificata dalla ricerca degli equilibri finanziari individuali tra contributi e benefici. Nello specifico di questa proposta, mi viene da chiedere se e quanto verrebbero penalizzati i pensionati delle posizioni lavorative inferiori, nelle quali, in un Paese dalla scarsa mobilità sociale verticale come il nostro, con grande probabilità finiranno anche i loro figli, i quali per ciò, a differenza dei figli delle famiglie più agiate, non avranno poi i mezzi per aiutare economicamente i propri genitori, sotto-pensionati proprio a causa della condizione lavorativa dei figli. E, ancor più cinicamente, cosa avverrebbe se un figlio riuscisse “male” o, ancor peggio, nascesse impossibilitato a svolgere una qualche attività produttiva? Forse che la pensione dei suoi genitori ne verrebbe decurtata in conseguenza? Di fatto, per il meccanismo ipotizzato, questa decurtazione avverrebbe almeno per il tramite dei minori contributi versati nei periodi di non lavoro dedicati al suo allevamento.
Insomma, pur nell’irrinunciabile ricerca degli equilibri pensionistici complessivi e nel lodevole impegno a far prolungare al di là delle attuali età di pensione l’impegno lavorativo di chiunque sia ancora in grado di contribuire in qualche forma al PIL, è necessario ricordare che la finalità più generale e di primo livello di un sistema previdenziale è quella di assicurare condizioni di vita dignitose a chi non può più procurarsele con il proprio lavoro. In nome della razionalità delle soluzioni non si può sminuire la finalità sociale del sistema previdenziale, almeno per una sua consistente fascia di base.
Come qualcuno ha già detto, la riforma delle pensioni è una cosa troppo seria per lasciarla fare solo agli economisti. O solo ai demografi, ovviamente.
Cfr. anche dibattito in corso sul blog di Flavia Amabile, giornalista de “La Stampa” (http://www.lastampa.it/amabile)
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