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Pensioni e invecchiamento: allarmi periodici
La questione previdenziale torna periodicamente alla ribalta sulla scena politica. Le occasioni contingenti possono essere varie: lo “scalone del 2008”, che è poi un tentativo di ritardare l’accesso alla pensione (non più a 57, ma a 60 anni almeno); oppure le scadenze non rispettate della riforma Dini, del 1995, che prevedeva, oltre alla verifica dei conti, anche una revisione decennale dei parametri e cioè un abbassamento dell’importo delle pensioni, commisurato all’allungamento della durata in vita dei pensionati.
Ma il motivo di fondo del problema previdenziale sta nel difficile equilibrio tra le regole dei trasferimenti in denaro, che dovrebbero idealmente essere fissate una volta per tutte, e l’invecchiamento della popolazione, che invece progredisce e anzi, negli ultimi anni, accelera. E’ un po’ come se un sarto cercasse di ritagliare un vestito adatto per tutte le età della vita, dall’infanzia alla maturità alla vecchiaia: un problema apparentemente insolubile.

Una storia semplice

Ma davvero non si può far nulla? Consideriamo, per semplicità, un unico fattore di invecchiamento, il ritardo nell’età media alla morte. Notiamo intanto un paradosso: tutti cerchiamo di vivere il più a lungo possibile e, a livello aggregato, la durata media della vita è un importante indicatore di sviluppo. Siamo quindi contenti che in Italia essa sia cresciuta dai circa 30 anni del 1861 ai circa 80 attuali (77 per gli uomini e 83 per le donne), sostanzialmente in linea con quanto avviene negli altri paesi sviluppati, e non ci dispiace che, per il futuro, siano previsti altri incrementi, al ritmo di circa 2 mesi di vita in più per ogni anno solare che passa. Ma perché, parlando di pensioni, ciò dovrebbe diventare invece motivo di preoccupazione?
A un anno di vita in più corrisponde anche un anno di consumi in più, per i quali qualcuno è chiamato a pagare: chi, quanto, e come? Immaginiamo, per semplicità, di avere a che fare con un unico individuo, che incomincia a lavorare a 25 anni, va in pensione a 60, e muore a 80 anni. Supponiamo, inoltre, che questo signore guadagni 1 per ogni anno di lavoro, e che possa liberamente decidere quanto risparmiare nelle età adulte, per pagarsi la pensione in vecchiaia. Questo è un mondo semplice: non ci sono incertezza, inflazione, interessi da pagare, costi di gestione, variabilità tra individui (ad esempio di reddito o di durata della vita), ecc. Inoltre, ammettiamo che nelle età adulte si lavori sempre, e che ai consumi dei ragazzi pensino i genitori.
Il nostro uomo guadagna dunque 35 nell’arco di tutta la vita (1 all’anno, per 35 anni di lavoro) e deve distribuire questo reddito su 55 anni di vita autonoma, dal 25° all’80° compleanno. Tra le infinite possibili scelte, la più semplice è quella di ripartire i consumi uniformemente su questi 60 anni, e quindi consumare 35/55=0,64 in ogni anno, di lavoro e di pensione, il che equivale a fissare il prelievo contributivo al 36%. Ovviamente, sono possibili anche altre soluzioni, con pensioni e aliquote contributive più basse, ma poiché sono tecnicamente più complicate e non toccano la sostanza del ragionamento, lasciamole pure da parte.

Un anno di più: chi paga, e come?

Bene, e che succede se il nostro uomo non muore più a 80 anni, ma a 81? Dal punto di vista previdenziale, i possibili aggiustamenti a una più tarda età alla morte sono soltanto tre. Se non si fa nulla, quando il nostro uomo avrà raggiunto 80 anni, avrà esaurito tutte le risorse disponibili, e, troppo vecchio per lavorare, dovrà mendicare per poter vivere. Non cambia molto che a provvedere sia la carità dei privati o l’assistenza pubblica: in ogni caso, il costo dei 12 mesi di vita in più sarà stato scaricato completamente sulle generazioni future. Tra parentesi, questa è, almeno in parte, la scelta che abbiamo adottato noi in Italia, adeguando i calcoli previdenziali solo in ritardo (ogni 10 anni), e anzi non rispettando neppure questa scadenza decennale.
La seconda possibilità è ridurre il tenore di vita, con tre opzioni:
2.a) “pagano gli adulti”: in questo esempio i contributi salgono fino a oltre il 38%, e questo permette di lasciare le pensioni invariate a 0,64;
2.b) “pagano i vecchi”: le pensioni scendono fino a 0,61 circa (nel nostro esempio), ma il reddito degli adulti, al netto dei contributi (costanti), può restare a 0,64.
2.c) “pagano tutti”: l’aliquota sale al 37% e i redditi netti (salari e pensioni) scendono per tutti a 0,63.
L’ultima scelta appare nel complesso la più ragionevole all’interno di questo blocco di opzioni, ma non è quella che abbiamo scelto in Italia: la riforma Dini ha invece optato per la soluzione (2.b), contributi costanti e pensioni più basse, anche se in pratica stiamo attuando la (1): non si fa niente, e qualcuno pagherà.

La terza via

C’è però anche una terza possibilità: lavorare leggermente più a lungo, in modo che, lasciando invariata l’aliquota contributiva (a 0,36 nel nostro esempio), rimangano costanti anche il reddito netto da lavoro e la pensione (entrambi pari, in questo esempio, a 0,64), mantenendo l’equilibrio dei conti previdenziali. Nel nostro esempio, l’età pensionabile deve salire da 60 anni a 60 anni e 7 mesi circa, e la regola generale è semplice: la vita in più (un anno, in questo esempio) si deve ripartire tra lavoro e pensione nella stessa proporzione che valeva per gli anni di vita “precedenti”. Prima, il nostro uomo, su 55 anni di vita economicamente autonoma (dal 25° all’80° compleanno), ne passava 35 al lavoro, e cioè lavorava per il 64% circa del totale. La stessa proporzione (64%) va applicata anche agli anni di vita aggiuntivi, che andranno quindi trascorsi per circa 7 mesi al lavoro e per 5 mesi in pensione.
Riassumendo: dal punto di vista previdenziale, un allungamento della durata media della vita è un costo, che si può pagare in tre modi. Con la (3), si lavora un po’ di più, adeguando dinamicamente, anno per anno, l’età pensionabile; con la (2) si abbassa il tenore di vita della popolazione, di tutta o solo di una parte di essa, e con la (1) si scaricano i costi su quelli che verranno.
Per ora, l’Italia ha scelto in teoria la soluzione (2), e in pratica la (1). Non preferiremmo invece la (3)?
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