Il diritto a mantenere la cittadinanza per i discendenti degli italiani emigrati all’estero è stato limitato alla terza generazione. Questo cambiamento legislativo va salutato con favore, perché avvicina la cittadinanza italiana de jure a quella de facto. Come sottolinea Gianpiero Dalla Zuanna nel suo articolo, sarebbe ora opportuno completare questo percorso normativo, rendendo più rapidi i tempi per la concessione della cittadinanza agli immigrati di prima generazione e, soprattutto, a quelli di seconda generazione.
A seguito di vari interventi legislativi e delle imponenti emigrazioni susseguitisi a partire dall’Unità d’Italia, le persone con cittadinanza italiana si sono moltiplicate a dismisura, grazie a un’interpretazione estensiva del principio dello jus sanguinis (diritto di sangue). Fino alla mezzanotte (ora di Roma…) del 27 marzo 2025, chiunque poteva dimostrare di avere un antenato emigrato dall’Italia dopo l’Unità, per legge era cittadino italiano. Per vedersi riconosciuto questo diritto, poteva far domanda all’Ufficio Anagrafe del Comune di provenienza del suo antenato, al Consolato italiano nel suo stato di residenza, o alla Corte d’Appello della regione di provenienza del suo antenato. Di conseguenza, per la legge, fino al 27 marzo del 2025 i cittadini italiani “potenziali” erano un numero incalcolabile, probabilmente centinaia di milioni, ossia tutti i discendenti dei più di venti milioni di emigranti che hanno lasciato l’Italia dal 1861 a oggi, restando poi stabilmente all’estero.
La nuova legge
Il Parlamento italiano ha convertito in legge un decreto del Governo che – a partire dalle domande presentate dopo il 27 marzo 2025 – prevede che il diritto di cittadinanza si trasmetta solo per due generazioni, con una possibile estensione alla terza solo per figli minori. Questo significa che sarà considerato cittadino italiano alla nascita solo chi ha almeno un genitore o al massimo un nonno italiano. Lo jus sanguinis oltre la seconda generazione non sarà più possibile, se non in casi specifici e ristretti, definiti dalla legge.
Questa legge potrebbe apparire come una drastica riduzione di diritti: di fatto, milioni di persone, in tutto il mondo, da un giorno all’altro, sono state private della cittadinanza italiana. Tuttavia, la questione va rovesciata: era lo jus sanguinis precedentemente in vigore ad essere irragionevole, mentre la nuova normativa è molto più vicina al significato autentico che dovrebbe essere attribuito alla cittadinanza.
La realtà dei fatti e l’analisi socio-demografica mostrano che quando una emigrazione si consolida, i legami con il paese di origine, rapidamente, si indeboliscono. Come sta accadendo oggi in Italia, i figli degli immigrati si identificano rapidamente con il paese ospite. I nipoti degli immigrati quasi sempre non parlano nemmeno la lingua del paese da cui provengono i loro nonni, e sono del tutto simili – per stile di vita, mentalità, gusti… – ai loro coetanei autoctoni. Se ammettiamo che la cittadinanza dovrebbe coincidere con l’appartenenza stabile e attiva a una comunità, la nuova legge sembra quindi aver posto un limite ragionevole.
Sanato un vulnus democratico
Un’ulteriore questione si pone per i paesi democratici, inclusa l’Italia, dove “la sovranità appartiene al popolo”. È irragionevole dare diritto di voto (attivo e passivo) a persone che con l’Italia non hanno nulla a che fare: già oggi gli iscritti all’Anagrafe Italiana Residenti Estero (AIRE) sono 6,5 milioni, ma potenzialmente – se la legge non fosse cambiata – avrebbero potuto diventare decine di milioni, superiori anche nel numero ai 55 milioni di residenti in Italia con diritto di voto. Ad esempio, questi 6,5 milioni di (potenziali) elettori oggi contribuiscono a innalzare il quorum necessario per la validità dei referendum.
Questa nuova legge, quindi, sembra essere un primo passo nella giusta direzione, per far coincidere pragmaticamente cittadini de jure e cittadini de facto. Sarebbero tuttavia necessari altri passi per superare normative sulla cittadinanza, rese anacronistiche dalla storia effettiva dei movimenti migratori dell’Italia contemporanea.
In primo luogo, si potrebbero allargare le maglie della nuova legge, creando corsie privilegiate per l’ottenimento della cittadinanza da parte di discendenti italiani oltre la seconda generazione, perché vi sono casi di persone che – effettivamente – hanno mantenuto un forte legame con l’Italia. Ad esempio, per i discendenti degli italiani si potrebbe prevedere l’acquisizione della cittadinanza dopo un periodo contenuto (2-3 anni) di residenza continuativa, di studio e di lavoro nel nostro paese.
Tempi più brevi per la cittadinanza agli immigrati e ai loro figli
In secondo luogo, andrebbe affrontata seriamente la questione della cittadinanza per i nuovi italiani. Gli attuali 4,5 milioni di stranieri oggi residenti in Italia, per chiedere di diventare cittadini debbono risiedere continuativamente per dieci anni nel nostro Paese (più una media di tre anni di iter burocratico…), oltre a dover – giustamente – dimostrare di avere un alloggio, un lavoro e di non aver commesso reati. Particolarmente critica è la situazione dei minori stranieri nati in Italia o qui giunti in tenera età, che si sentono italiani, ma quando entrano nell’adolescenza “scoprono” di non esserlo, e debbono subire anche restrizioni pratiche, ad esempio non essendo liberi di circolare nell’Unione Europea.
Da un punto di vista della democrazia, questi 4,5 milioni di cittadini vivono in un paradosso: contribuiscono a determinare alcune cifre elettorali, calcolate sui residenti, come il numero di eletti nelle assemblee amministrative e legislative (Consigli Comunali, Parlamento…), ma non possono eleggere i loro rappresentanti, né essere eletti. Un po’ come accadeva, fino al 1946, per le donne.L’abbassamento da dieci a cinque anni dei tempi di residenza necessari per poter far domanda di cittadinanza allineerebbe l’Italia ad altri paesi, come la Francia e la Germania. Il referendum dell’8 e 9 giugno è un’occasione per modernizzare anche questo aspetto della normativa. Il conteggio dei residenti AIRE, assieme alla crescente disaffezione al voto, renderà complesso raggiungere il quorum, ma vale la pena provarci.
*Pubblicato martedì 3 giugno sul quotidiano Avvenire: Referendum. La nuova legge sulla cittadinanza è una riforma a metà: completiamola