La pubblicazione dei principali risultati del Censimento cinese conferma la crescita della popolazione nel corso dell’ultimo decennio, ma rivela anche l’intensità e la velocità dell’invecchiamento demografico del paese che ha indotto il governo a promuovere una politica demografica favorevole ai tre figli. Patrizia Farina descrive i principali risultati del censimento e le strategie messe in atto per contrastare lo squilibrio fra generazioni.
Qualche giorno fa ha destato scalpore la notizia del declino della popolazione cinese riportata da alcuni media statunitensi, notizia energicamente smentita dal governo che per l’occasione ha diffuso i risultati preliminari del censimento 2020. A parte queste schermaglie mediatiche quanto appena pubblicato dall’Istituto nazionale di Statistica cinese conferma che il paese, anche se un po’ più numeroso, ha imboccato la strada verso un inverno demografico, con le sue conseguenze economiche e sociali.
I dati censuari raccontano infatti di un lieve incremento totale e della contrazione della popolazione attiva a favore di quella anziana, nata durante i baby boom degli anni 50 e 60 (Tabella 1 e Figura 1) e che fra il 1982 e il 2000, la stessa che ha concorso per il 27% alla crescita del prodotto interno lordo del paese. Benché l’invecchiamento della popolazione e le misure per contenerlo siano fra i principali argomenti politici del Regno di Mezzo, altri due indicatori sono significativi: l’eccezionale numero di migranti interni – aumentati del 70% nel decennio e pari a un quarto dell’intera popolazione – e il rapporto tra i sessi alla nascita che, pur essendo in sostanziale calo rispetto al 2010, supera ancora e di gran lunga la soglia della normalità.
Fra l’inizio degli anni ’90 e la fine dello scorso decennio, la Cina ha goduto del cosiddetto bonus o dividendo demografico caratterizzato dalla presenza di una elevata percentuale di persone in età lavorativa rispetto a quella inattiva. La struttura demografica di quegli anni ha concorso a creare le condizioni per una crescita economica di intensità e lunghezza senza precedenti.
Il censimento racconta, tuttavia, che il periodo d’oro sta finendo: la popolazione in età lavorativa nel 2020 è diminuita del 7% rispetto al 2010 a fronte di un pari aumento di quella maggiore di 60 anni.
Il venire meno del vantaggio demografico e l’invecchiamento della popolazione è fonte di preoccupazione del governo, chiamato anche al mantenimento per nulla scontato del benessere raggiunto dalla popolazione anziana. Al proposito val la pena di citare un rapporto pubblicato nel 2019 dalla prestigiosa Accademia Cinese delle Scienze secondo cui il fondo pensionistico statale si esaurirà entro il 2035, anno in cui si stima una popolazione maggiore di 60 anni di oltre 300 milioni.
Più in generale, l’invecchiamento sfida il mantenimento delle condizioni di vita dignitose degli anziani, i più vulnerabili, una popolazione lasciata in gran parte nelle zone spopolate dalla emigrazione o non autosufficiente, che dispone di poche risorse e che non può contare, come avveniva un tempo, sulla rete familiare ormai polverizzata. Tutto questo è ben noto al governo, che ha avviato numerosi programmi di sostegno al benessere sociale come i piani pensionistici e assicurativi speciali, o i riconoscimenti economici elargiti ai nuclei composti da tre generazioni, nel tentativo di adattare un ideale culturale tradizionale – quello delle 5 generazioni – alla società contemporanea.
A queste iniziative di mitigazione del disagio sociale se ne aggiungono altre due più universali e su larga scala: il graduale aumento dell’età pensionabile – attualmente posta a 60 anni – un provvedimento molto urgente dato l’imminente arrivo delle generazioni del baby boom successive alla carestia del 1961 – e la politica dei due figli adottata nel 2015, in sostituzione di quella del figlio unico. La prima riforma è ancora in discussione e fonte di tensioni, la seconda ha dato modesti risultati ed è stata rimpiazzata proprio in questi giorni da quella dei tre figli.
La trappola della fecondità
Proprio all’indomani della pubblicazione dei principali risultati del censimento Ning Jizhe, Direttore dell’ufficio nazionale di statistica, ha dichiarato che nel 2020 sono nati 12 milioni di bambini e bambine, il numero più basso mai registrato in Cina se si escludono gli 11,8 milioni di nascite avvenute durante la Carestia del 1961. Questo risultato, preceduto da riduzioni anche negli anni precedenti, in parte è imputabile all’esiguità delle generazioni oggi in età riproduttiva via via dimezzatesi in conseguenza della politica del figlio unico. La trappola demografica in cui è finito il paese è destinata ad accentuarsi: si prevede infatti la riduzione del 40% del numero di donne in età feconda alla fine del decennio in corso, ciò che implicherà la riduzione delle nascite anche a fecondità invariata.
Il depauperamento delle generazioni femminili è aggravato dalla discriminazione nei confronti delle giovani e dal ricorso all’aborto selettivo alla ricerca del figlio maschio. Lo confermano i dati dei Censimenti – incluso l’ultimo – ma anche le statistiche ufficiali della popolazione per genere e classi di età (Figura 2). D’altronde, il governo ha recentemente rivelato che il 15% dei celibi delle coorti nate fra il 1990-2015 e attese al debutto sul mercato matrimoniale, non troveranno spose.
La trappola demografica è anche alimentata dalla riduzione della fecondità desiderata dalle coppie. Le difficoltà economiche, i costi della crescita dei figli e la difficile conciliazione lavoro-cura, inclusa quella dei genitori anziani sostenuti da una sola figlia o un solo figlio riducono la domanda di figli. Ai motivi materiali si aggiunge anche l’effetto di tre decenni di consolidamento di una norma sociale contro la riproduzione, costruita intorno a una famiglia ideale composta da un figlio o una figlia destinatari degli investimenti necessari a sostenere l’intensa competitività. Una sintesi delle indagini che si sono susseguite dagli anni ’80 lo conferma: la domanda ideale di figli ancora pari a due nel decennio 1980-1989 si è ridotta nel nuovo secolo fino a 1,6.
L’abbandono della politica del figlio unico: troppo tardi o troppo poco?
Quando nel 2016 la politica dei due figli è entrata in vigore, la Cina ha registrato un picco nelle nascite: oltre 18 milioni di nati vivi – il numero più alto dal 2000, un aumento dell’11% rispetto all’anno precedente (Figura3). Quasi la metà aveva almeno un fratello o una sorella maggiore, il che sembra suggerire che l’abbandono delle restrizioni ha consentito alle coppie che lo desideravano di avere il secondogenito. L’efficacia della politica è stata però effimera: già l’anno successivo il numero di nati vivi si è ridotto del 3,5% rendendo vano l’obiettivo più volte dichiarato di voler incrementare le nascite fino a 20 milioni annui. Questo modesto incremento e la conferma del rapido invecchiamento della popolazione è all’origine della nuova politica demografica cinese: il 31 maggio infatti il premier Xi Jinping ha ufficialmente abolito anche il limite dei due figli.
La rivoluzione nella politica demografica cinese – dalla limitazione obbligatoria all’esortazione a procreare – è notevole per la sua portata e per l’effetto sperato di mitigazione dell’invecchiamento nel lungo periodo. Le armi a disposizione della leadership dovranno far leva sui vantaggi dell’avere una famiglia più numerosa anche riducendo le costrizioni materiali. Non per caso l’apertura ai tre figli è accompagnata dall’avvio di politiche economiche e sociali favorevoli alle nascite. Tuttavia, non tutto può essere ricondotto alla rimozione degli ostacoli materiali. La sfida più difficile e forse impossibile da vincere è rappresentata dalla capacità delle istituzioni di “infondere” un nuovo modello familiare estraneo alle generazioni di figli e figlie uniche chiamate a fare famiglia e che per la prima volta non potranno essere coercitivamente costrette a obbedire.