Tabella 1. Modalità prevalente di cura/affidamento dei bambini in età 0-3 anni.
Modalità di cura/affido
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Tutte le madri |
Lavoratrici |
Non lavoratrici |
Genitori | 045,7 | 007,3 | 086,2 |
Nonni | 029,2 | 051,1 | 006,2 |
Asilo pubblico | 007,6 | 013,5 | 001,4 |
Asilo private | 007,9 | 013,8 | 001,9 |
Altro | 009,6 | 014,3 | 004,3 |
Totale | 100,0 | 100,0 | 100,0 |
Fonte: adattamento da Zollino (2008) [1]. Dati Istat, l’indagine campionaria sulle nascite, 2005.
Dalla tabella 1, si nota che solo il 15% circa delle mamme fa ricorso agli asili pubblici o privati.
Nel determinare le scelte di child care delle famiglie entrano in gioco diversi fattori. Molte famiglie preferiscono affidarsi ai nonni perché, diversamente dai servizi forniti dagli asili nido, essi garantiscono una forma di aiuto flessibile, per durata e per orari. Inoltre, l’Italia soffre di un forte razionamento dell’offerta, eufemismo tecnico che indica la sostanziale scarsità di servizi all’infanzia. La situazione è particolarmente critica per la fascia d’età 0-3 anni, mentre per i bambini di età superiore il sistema scolastico pubblico garantisce un’offerta di servizi estesa capillarmente sul territorio.
Anche riguardo all’offerta di servizi all’infanzia, l’Italia non manca di presentarsi divisa geograficamente. La percentuale di posti disponibili in asilo nido pubblici o convenzionati sulla popolazione in età 0-3 anni varia considerevolmente tra le regioni italiane. Quasi tutte le regioni del Centro-Nord presentano valori superiori al 10%, con punte del 23.5% in Emilia-Romagna e del 28.5% in Valle d’Aosta. Al Sud, invece, si registrano anche percentuali inferiori al 2% (1.5% in Calabria, 1.3% in Campania) [1].
Che i nonni aiutino è sotto gli occhi di tutti, ma quantificare il loro apporto non è un esercizio banale. Innanzitutto è da capire se all’associazione che si riscontra nei dati (Tab. 1) tra aiuto ricevuto dai nonni e probabilità di lavorare può essere attribuito un significato causale. Può darsi, infatti, che alcune donne decidano di non lavorare perché vogliono allevare i figli e in tal caso non chiederanno aiuto ai nonni. E che le donne che osserviamo nel gruppo di quelle che ricevono aiuto dai nonni e lavorano avrebbero lavorato comunque.
Numerosi lavori dimostrano l’effetto positivo della disponibilità dei nonni sulla fecondità e sul lavoro delle donne [2]. Secondo una stima recente [3], ricevere aiuto nella cura dei figli da parte dei nonni aumenta di circa 30 punti percentuali la probabilità che le mamme lavorino (Tab. 2). Tale effetto non è omogeneo, ma varia con le caratteristiche delle mamme. In particolare, l’impatto dei nonni è minore per le donne più istruite, le quali possono contare su un reddito superiore che consente loro di ricorrere più agevolmente a servizi a pagamento (asili e babysitter). Da notare è anche l’effetto più forte della disponibilità dei nonni per le mamme che hanno almeno un bambino in età 0-3 anni, fascia d’età per la quale come abbiamo detto i servizi formali sono limitati.
Tabella 2. L’effetto differenziale di ricevere o meno aiuto dai nonni sulla probabilità di lavorare per le mamme.
Sottocampione
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Differenza tra probabilità di lavorare se si riceve aiuto o no |
Istruzione primaria | 41.4 |
Istruzione secondaria | 38.6 |
Istruzione terziaria | 04.9 |
Almeno un figlio 0-3 anni | 46.4 |
Tutti i figli di età 4+ anni | 21.8 |
1 solo figlio | 34.5 |
2 figli o più | 32.5 |
Tutte le mamme | 30.3 |
Fonte: stime ottenute applicando un modello a variabili strumentali su dati Istat, Multiscopo 2003 [3].
Quali politiche?
I nonni, dunque, svolgono un ruolo importante nell’economia italiana per garantire alle donne la conciliazione di lavoro e maternità. Ma non tutti hanno nonni vicini, in gamba e disposti. Purtroppo i governi non possono aumentare la disponibilità di nonni e allora servono più asili nido. Con l’accordo di Lisbona, i paesi Europei, al fine di facilitare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, si sono impegnati, tra l’altro, a portare la disponibilità di posti in asili nido al 33%, ma l’Italia è ben lontana da questo traguardo (v. anche Chiara Saraceno, Come si misurano i tassi di copertura dei servizi per l’infanzia?).
La situazione è ancora più preoccupante se si pensa all’evoluzione demografica in atto e alle possibili riforme pensionistiche sotto studio. Per quanto riguarda la prima, la continua posticipazione della formazione delle famiglie sta facendo allungare sempre di più il divario in termini di anni tra una generazione e la successiva. Dall’altro lato, però, gli anziani godono di condizioni di salute sempre migliori. L’effetto netto di queste due forze contrapposte sulla disponibilità di nonni negli anni a venire non è facilmente prevedibile. Per quanto riguardo il fronte pensionistico, si dibatte sull’opportunità di aumentare l’età pensionabile, in particolare per le donne. L’effetto indiretto di una politica del genere, della cui opportunità non si può discutere in questa sede, sarebbe quello di ridurre la disponibilità di servizi informali per l’infanzia con la conseguenza indesiderata di ostacolare ancor di più il lavoro delle mamme giovani.
Queste considerazioni valgono a sottolineare la necessità di considerare le complesse interrelazioni tra economia, demografia e cultura allorquando si intraprenda l’implementazione di una riforma strutturale in un settore fondamentale dell’economia. Non si può aumentare la partecipazione al mercato del lavoro delle donne e nelle età avanzate se non si provvede a rinforzare il sistema di servizi alla famiglia. Tuttavia l’impressione è che la politica sia troppo distratta da altre cose per poter ragionare di riforme sistemiche complessive. Ma, come dicono saggiamente i nostri nonni, “la speranza è l’ultima a morire”.
Riferimenti bibliografici
[1] Zollino F. (2008) Il difficile accesso ai servizi di istruzione per la prima infanzia in Italia: i fattori di offerta e di domanda, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers), N. 30.
[2] Del Boca D. (2002) The Effects of Child care and Part time on the Participation and Fertility Decisions of Married Women, Journal of Population Economics, 14.