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La crisi del governo Prodi, tra febbraio e marzo 2007, una vittima l’ha fatta: i DiCo, i Diritti e doveri dei conviventi, sono scomparsi dalle “12 condizioni” poste dal premier per tornare a governare, attraverso il recupero dei voti di alcuni senatori a vita e l’allargamento della maggioranza al centro. Secondo alcuni, la scomparsa dei DiCo dall’agenda politica dipende dal fatto che il governo ha già onorato il suo impegno su questo tema; secondo altri, invece, la stessa crisi di governo, benché formalmente avvenuta su questioni di politica estera, sarebbe da attribuire proprio allo scontro sul tentativo di introdurre in Italia una qualche forma di regolamentazione delle convivenze. Questo scontro che si è acceso in Parlamento rappresenta, per certi versi, un ritorno ad un passato che vide le due aule parlamentari protagoniste delle battaglie per la modernizzazione della società italiana o, meglio, per l’adeguamento della nostra legislazione alle modifiche già in atto nei fatti e nella mentalità dei cittadini.


Un po’ di storia recente

Il divorzio (o – in versione politicamente corretta – lo scioglimento, o la cessazione degli effetti civili del matrimonio) venne introdotto in Italia con la legge 898, originariamente proposta dagli onorevoli Fortuna (Psi) e Baslini (Pli) ed approvata in via definitiva dalla Camera il 1° dicembre 1970 con 319 voti favorevoli e 286 contrari, in uno schieramento trasversale che vide a favore Pci, Psi, Psiup, Psu, Pli, Pri, Indipendenti di Sinistra, e contrari Dc, Msi, Pdium, Svp. Il governo, presieduto dall’onorevole Colombo e formato da Dc, Psi, Psdi e Pri, non cadde però in conseguenza di quel voto.
L’aborto (o – ancora per pruderie lessicale – l’interruzione volontaria della gravidanza) fu introdotto con la legge 194, prime firmatarie le onorevoli Faccio e Magnani Noya, approvata in via definitiva dalla Camera il 22 maggio 1978 con 310 voti favorevoli e 296 contrari. Anche in questo caso, la proposta di legge raccolse i consensi di tutta la sinistra, cui si aggiunsero i liberali e i repubblicani. Anche in questo caso, il monocolore democristiano di Andreotti, da poco reinsediato, non entrò in crisi per la sconfitta parlamentare del partito che lo sorreggeva.
Com’è noto, entrambe le leggi vennero sottoposte a referendum popolare: la prima nel 1974, quando la sua abrogazione venne respinta con il 59% dei voti validi in una consultazione alla quale partecipò l’88% degli aventi diritto; la seconda nel 1981, quando, in una consultazione su più quesiti, venne respinta con il 68% dei voti l’abrogazione di alcune norme della 194 per restringere i casi di liceità dell’aborto, quesito per il quale votò il 79% degli iscritti nelle liste elettorali. In quegli stessi anni, alle elezioni politiche la sola Dc raccoglieva più del 38% dei suffragi e la destra (Msi e Monarchici) un altro 7÷8%.
Da un lato, va dunque apprezzata la grande autonomia dall’esecutivo in carica di cui godevano a quel tempo il Parlamento nel suo complesso e molti dei suoi singoli componenti, che su quelle tematiche civili agivano in base a iniziative personali o di piccoli gruppi di opinione, spesso trasversali agli schieramenti di partito. D’altro lato, risulta persino sorprendente la capacità di quelle assemblee di interpretare le opinioni in senso modernistico che ormai andavano prevalendo in una società italiana da molti ritenuta ancora statica e tradizionale.


La novità del bipolarismo

Il sistema bipolare sembra invece aver tolto al Parlamento quella capacità di proporre, discutere e trovare convergenze trasversali sui grandi temi civili.
Già nella precedente legislatura, la “prudente” legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita era stata proposta e sostenuta in Parlamento con tutta la forza dell’esecutivo d’allora, riuscendo ad ottenere il sostegno di tutta la Casa delle libertà (2 soli i contrari e 5 gli astenuti), mentre l’Unione di centro-sinistra si divise, a causa del voto favorevole di gran parte della Margherita. Ancora in quel caso l’iniziativa era venuta da singoli parlamentari (Giorgetti ed altri), ma l’impegno della coalizione di centro-destra fu massiccio – anche successivamente, con l’esplicito appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, in favore dell’astensionismo nella successiva campagna referendaria promossa per la parziale abrogazione della legge.
Nel caso della recentissima proposta di legge sui DiCo si è raggiunto l’estremo dell’avocazione dell’iniziativa da parte dell’esecutivo, che ha incaricato due suoi ministri, Rosy Bindi (Politiche per la famiglia) e Barbara Pollastrini (Diritti e pari opportunità), di approntare un disegno di legge per dare attuazione al punto del programma dell’Ulivo che prevede “il riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà alle persone che fanno parte delle unioni di fatto”. È stata infine trovata una mediazione tra l’anima cattolica e quella laica presenti nella maggioranza di governo, anche grazie ad ammirevoli costrutti legislativi che evitano eccessive somiglianze dei DiCo con l’istituto matrimoniale.
Proprio a causa dell’equilibrio così accuratamente trovato c’è da aspettarsi che, nonostante le dichiarazioni d’apertura a modifiche migliorative, il progetto di legge governativo andrà in Parlamento alquanto “blindato” e, in ogni caso, esporrà il governo all’alea di una possibile bocciatura, specie al Senato. E questo anche perché tutta l’opposizione guarda al disegno di legge non tanto come una base sulla quale costruire un istituto condiviso dalla maggior parte dei parlamentari e – come sembrano indicare alcune indagini svolte nel mese di dicembre – accettato dalla maggioranza dei cittadini, quanto come una sfida lanciata dal governo contro principi che vanno difesi ad oltranza, senza alcuna concessione.
Anche nel caso che il disegno di legge riuscisse a essere approvato, c’è da temere che la probabile successiva campagna referendaria per la sua abrogazione verrà vissuta in termini di contrapposizione frontale tra i due schieramenti, salvo defezioni, soprattutto dal centro-sinistra, per rispetto delle preannunciate direttive delle gerarchie cattoliche. Gli elettori potrebbero così essere spinti a manifestare un voto “politico”, più che la propria opinione sul problema specifico delle coppie conviventi, e sulla soluzione per esso proposta dal governo.

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