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Il decreto legislativo sui nidi: un passo avanti, ma la strada è lunga

Come era già successo decenni fa con la scuola materna, anche i nidi e i servizi per la primissima infanzia entrano finalmente a pieno titolo tra i servizi educativi. O almeno questo è l’obiettivo dello “Schema di decreto legislativo recante istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni” del gennaio 2017. Niente più due sistemi separati rispettivamente per le fasce di età 0-2, 2-5, ma un sistema unico, al fine di «garantire ai bambini e alle bambine pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali». Anche la qualificazione specifica richiesta per il personale va nella stessa direzione (art.2). Sembra, inoltre, di capire, che lo schema di decreto punti su una pluralità di modelli organizzativi e temporali, non ridotti esclusivamente al nido a tempo pieno, per rispondere sia alle esigenze di sviluppo di ciascun bambino sia alle necessità dei genitori. Sarà compito dei Poli educativi, luoghi che dovrebbero accogliere le diverse attività e servizi educativi per gli 0-6 anni (art. 3), sia organizzare e coordinare l’offerta che monitorarne l’efficienza ed efficacia.

In effetti, già da diversi anni, contrariamente a quanto si è letto su alcuni giornali in occasione della approvazione del decreto, i servizi per la primissima infanzia e in particolare i nidi in moltissime amministrazioni comunali sono definiti come servizi educativi e non esclusivamente custodialistici e la responsabilità nei loro confronti è attribuita agli assessorati all’istruzione e non a quelli all’assistenza e ai servizi sociali. La grande debolezza di cui soffrono è piuttosto il loro statuto di servizi a domanda individuale e il loro finanziamento prevalentemente locale.

La situazione attuale: grandi differenze che creano disuguaglianze

Insieme, queste due caratteristiche, contribuiscono a tenere i livelli di copertura dei servizi per la prima infanzia finanziati dai Comuni molto bassi (13% circa) con differenze territoriali enormi – dal 26% circa dell’Emilia-Romagna a meno del 2% della Calabria – e poco congruenti con l’obiettivo di garantire a tutti i bambini e bambine pari opportunità. Una recente indagine Istat¹ mostra che, accanto all’offerta pubblica, se ne è sviluppata anche una privata, praticamente finanziata interamente dalle famiglie: se si considerano i posti in strutture pubbliche e private si arriva ad un tasso di copertura pari a circa il 20% per i bambini sotto il 3 anni. Sia che si prenda il dato di copertura dei servizi finanziati dai Comuni che quello comprendente anche le strutture private, il caso italiano appare comunque molto lontano dal (modesto) obiettivo del 33% che l’Unione Europea si è data all’interno della “Strategia Europa 2020”.

Queste difficoltà contribuiscono sia a rafforzare le disuguaglianze nelle pari opportunità tra bambini e bambine sul territorio nazionale (fra Nord e Sud) e per classe sociale (sono soprattutto i figli di classi medio-alte più di quelle popolari ad accedere), sia a far considerare il nido e servizi simili un servizio a bassa legittimità culturale, da utilizzarsi solo in caso di estremo bisogno o d mancanza di alternative famigliari. Tutto ciò rende difficile ai genitori, in particolare alle madri, conciliare la ricerca e il mantenimento di una occupazione in presenza di un bambino molto piccolo, con effetti negativi sia sulle decisioni di fecondità sia sulla permanenza delle donne nel mercato del lavoro e sul loro reddito a medio e lungo termine. Una indagine preliminare sui dati amministrativi dell’INPS, pubblicata recentemente da Martino², mostra che il ritorno dei redditi ai livelli precedenti la maternità avviene solo dopo circa venti mesi, rispecchiando un lento rientro al lavoro, la riduzione delle ore lavorate e il rischio di lasciare o perdere la propria occupazione. Nel migliore dei casi, quindi, diventando madri le lavoratrici perdono quasi due anni di progressione di reddito (e di carriera), ampliando il divario che le separa dai colleghi maschi, inclusi i padri.

Con lo schema di decreto si fa, appunto, il primo passo importante verso la creazione di un servizio educativo per la primissima infanzia non più esclusivamente affidato alla discrezionalità locale. Anche l’Italia sembra finalmente orientata ad affrontare i servizi della prima infanzia in un’ottica che coniughi l’obiettivo delle pari opportunità tra i bambini come obiettivo insieme di uguaglianza e di investimento in capitale umano e quello del sostegno alla conciliazione tra scelta di fare un figlio e permanenza nel mercato del lavoro.

I limiti del decreto

Questi obiettivi rischiano, tuttavia, di essere fortemente indeboliti, se non vanificati, da due limitazioni. La prima riguarda le rette. A differenza della scuola per l’infanzia, si parla ancora (art. 9, comma 1), nell’ottica di un servizio a domanda individuale, di compartecipazione delle famiglie alla spesa, la cui soglia massima non è neppure definita, ma rimandata alla “Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, tenuto conto delle risorse disponibili”. E’ proprio l’entità delle rette che esclude non tanto i meno abbienti (che hanno rette agevolate), quanto i ceti medi a reddito modesto. Si tenga presente che un quinto della spesa dei Comuni per i servizi per la prima infanzia è sostenuta dalle famiglie tramite compartecipazione. Se si pensa che sia opportuno o inevitabile introdurre una retta e non solo una tassa di iscrizione, occorrerà individuare criteri più adeguati, che tengano conto anche del possibile effetto selettivo nei confronti di chi non è abbastanza povero per accedere gratuitamente o a prezzo scontato e non è abbastanza abbiente da non doversi preoccupare dell’ammontare della retta.

La seconda limitazione riguarda le risorse aggiuntive messe in campo: 229 milioni all’anno, da distribuire su tutto il territorio nazionale. Senza negare la positività di questo impegno, esso appare largamente insufficiente a realizzare in tempi ragionevoli almeno il 33% di copertura, anche se parte dell’ampliamento avvenisse con servizi convenzionati, a tempo parziale o micronidi. Per dare un’idea di quanto sarebbe necessario, si consideri che i dati Istat riferiti al 2013 indicano che la spesa corrente dei Comuni per i servizi socio-educativi rivolti alla prima infanzia, al netto della compartecipazione delle famiglie pari a 310 milioni di euro, ammontava a circa 1,25 miliardi di euro, assicurando una copertura del 13%. Un aumento annuo di 229 milioni rappresenta un incremento di un po’ meno di un quinto della spesa annuale. Apprezzabile, ma ancora largamente insufficiente, dati i livelli da cui si parte.

¹Istat (2016): “Asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia: censimento delle unità di offerta e spesa dei comuni

² Si legga l’intervento di Enrica M. Martino: “Quanto costa alle donne la maternità” su la voce.info, 20.12.16.

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