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Demografia e democrazia richiedono una nuova legge sulla cittadinanza

Se il popolo è l’insieme dei cittadini di un paese, il principio di inclusione alla base del disegno costituzionale – argomenta Laura Ronchetti – dovrebbe minimizzare le differenze tra coloro che pur vivendo sullo stesso territorio hanno la cittadinanza e coloro che ne sono privi. Purtroppo, invece, le disparità tra questi due insiemi si allargano.

Il popolo è sempre più presente nel dibattito pubblico e riempie di sé, spesso a sproposito, la retorica politica. Categoria tradizionale del diritto costituzionale, il popolo è considerato uno degli elementi della forma Stato insieme alla sovranità e al territorio. Se il popolo viene giuridicamente definito come l’insieme dei cittadini, è pur vero che il principio di inclusione alla base del disegno costituzionale tende a far coincidere il popolo con la popolazione, vale a dire l’insieme delle persone che vivono stabilmente in Italia. Lo stesso principio inclusivo impone anche di minimizzare le differenze di trattamento tra persone sulla base della cittadinanza. L’effettivo sviluppo dell’ordinamento giuridico è viceversa da tempo proteso verso una sempre più netta disparità di trattamento tra i cittadini e coloro che, pur sentendosi partecipi della Nazione, non possono vantare il riconoscimento della cittadinanza dello Stato in cui sono cresciuti e vivono.

Popolo e popolazione

La forbice esistente tra i componenti del popolo e i membri della popolazione italiana, quindi, è lo specchio della crisi della capacità inclusiva del processo d’integrazione della Repubblica, con un conseguente aumento delle diseguaglianze. Pur senza considerare le forme dirette o dissimulate di discriminazione che colpiscono lo straniero in quanto tale, i soggiornanti di lungo periodo in Italia si differenziano dai cittadini de iure nell’esercizio di diritti come quelli di elettorato, di partecipazione ai concorsi pubblici, di svolgere attività sportive a livello agonistico, di iscrizione ad albi professionali, di partecipazione a gite scolastiche all’estero e di movimento. Soprattutto, però, la loro esistenza è interamente condizionata dal mantenimento delle condizioni di legittima permanenza in Italia: una vita appesa al permesso di soggiorno, senza maturare mai un diritto vero e proprio a restare e a non essere espulso, condizionando ogni altro profilo della propria esistenza, da quella lavorativa a quella familiare. Il diritto di soggiorno è diventato, infatti, un diritto politico al pari del diritto di elettorato, nonostante proprio il pensiero giuridico italiano lo abbia per lungo tempo considerato un diritto civile di ogni essere umano.

Anacronismo della legge sulla cittadinanza, fattore di disuguaglianza

Quella parte della popolazione italiana che non è considerata parte del popolo vive, dunque, una condizione di precarietà (e, quindi, ricattabilità e incertezza) da cui si può uscire soltanto con l’acquisto della cittadinanza italiana. Eppure diminuiscono le persone che riescono a uscire da questa perenne incertezza esistenziale tipica degli “stranieri in patria”: nel 2018, infatti, si è registrata una flessione del 23,8% delle nuove acquisizioni di cittadinanza rispetto al 2017, tornando ai livelli del 2013. L’analisi dei dati¹ è lo specchio fedele dell’inadeguatezza della riforma della cittadinanza del 1992, anacronisticamente ancorata all’acquisto iure sanguinis in un paese nel frattempo divenuto d’immigrazione almeno vent’anni prima: aumentano sensibilmente coloro che nel 2018 sono divenuti italiani per discendenza, perché nati all’estero da padre o madre di origine italiana, mentre crollano le acquisizioni per residenza (-21 mila pari al -37,2%) e il connesso acquisto per trasmissione dai genitori (-14 mila circa pari al -31,9%). Troppo discrezionale, censitario (reddito da dimostrare), iperburocratizzato (svilendo i diritti anagrafici degli stranieri), agganciato al tempo lungo di un decennio che nei fatti si allunga a tre lustri. I figli minorenni al momento della domanda di naturalizzazione nel frattempo crescono, perdono la possibilità di acquisire la cittadinanza per trasmissione e a diciotto anni diventano “immigrati” economici espellibili, anche se sono arrivati in Italia da piccoli. Se sono nati in Italia hanno un fugace diritto alla cittadinanza una volta divenuti maggiorenni: un carpe diem della durata di un anno.

Nonostante i minori rappresentino il 21,8% dei lungo soggiornanti a fronte .di un’incidenza sulla popolazione italiana residente del 15,6%, si è registrato un calo nella classe d’età più giovane di nuovi cittadini (passando dal 40% a meno del 36%). I minorenni di cittadinanza straniera presenti in Italia sono circa 257 mila, vale a dire il 23,5% di tutti i residenti che hanno acquisito la cittadinanza e nel 78,8% dei casi sono nati nel nostro Paese. Non sorprende, dunque, che in realtà la via semre più frequentata per diventare cittadini, da parte di chi vive in Italia, sia sposarsi con un italiano: essere accolte in una famiglia italiana di origine è più facile per le donne che, infatti, sono il 58% dei neocittadini ma bisogna domandarsi quanto tutto ciò non mortifichi l’anelito di libertà femminile che muove i progetti migratori di molte donne.

Ius soli, ius loci, ius domicilii, ius culturae presuppongono uno ius, un diritto, che guardi alla demografia per renderla coerente con una democrazia degna di questo nome. Non è ulteriormente rinviabile una riforma della lex del 1992 al fine di conformarla a tale ius.

Note

¹ Cfr. Report ISTAT, Cittadini non comunitari in Italia | anni 2018-2019, 17 ottobre 2019.

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