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Cinesi d’’Italia

Sono trascorsi parecchi decenni da quando un gruppetto di cinesi, espulsi dalla Francia dopo la prima guerra mondiale, approdò in un quartiere allora popolare di Milano (già abitato da molti immigrati e immigrate italiane, che dalle campagne lombarde si trasferivano nel capoluogo in cerca di lavoro). Per alcuni decenni questi pionieri sono rimasti i pochi rappresentanti della comunità, testimoni silenziosi e appartati degli avvenimenti storici che il nostro paese ha vissuto nel corso del Novecento, perfino delle ondate migratorie degli italiani verso le regioni settentrionali o altri paesi europei.
Nonostante i cinesi possano essere certamente considerati i primi immigrati in Italia nel senso più attuale del termine, la loro presenza si è resa decisamente visibile solo dall’inizio degli anni ’80. In questo periodo, infatti, inizia la crescita che li colloca oggi al quinto posto per numerosità[1] – poco meno di 169 mila al primo luglio 2005 Alla stessa data l’11% era presente irregolarmente, ma il dato era ancora condizionato dalla sanatoria promossa attraverso la legge Bossi-Fini. Se si confermerà la tendenza registrata nel 2006 per il solo territorio lombardo, la proporzione di irregolari reale è oggi probabilmente più elevata di 3-4 punti percentuali, e quindi vicina al 15%.
I cinesi si distinguono però dagli altri immigrati per molte caratteristiche, tanto che, date le loro particolari modalità insediative, sono forse al primo posto tra le comunità straniere per visibilità.
Non diversamente dalla maggior parte degli altri immigrati presenti nel nostro territorio, anche i cinesi sono spinti ad emigrare principalmente per migliorare le proprie condizioni materiali di vita, ma si distinguono tuttavia per il modo in cui perseguono l’obiettivo del proprio benessere economico. Sono infatti fortemente orientati verso le attività imprenditoriali – anche se le imprese sono di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare e ottenute dopo diversi anni di lavoro alle dipendenze – in un sistema che, pur dialogando con quello italiano, risponde a meccanismi di reclutamento e di finanziamento del tutto autonomi. Il tasso di attività è molto alto sia per uomini che per le donne, anche se queste ultime sfruttano di solito la possibilità di ricongiungersi al coniuge e appaiono quindi nelle statistiche come flussi secondari. L’economia etnica si esprime principalmente nelle attività artigianali, commerciali e nella ristorazione. I cinesi sono invece pressoché inesistenti nelle attività di assistenza domiciliare e relativamente poco presenti tra gli operai nei settori meccanico ed edilizio (dominio di immigrati di altre nazionalità).
E’ meno frequente che abbiano titoli di studio molto elevati, vivono principalmente con i familiari in abitazioni di proprietà, che spesso sono il luogo di lavoro stesso. Il paesaggio familiare è più denso di bambini di quel che sarebbe consentito in Cina (dove vi sono politiche restrittive sul numero di figli). Insomma, in generale, i cinesi non competono con le fasce marginali italiane e straniere. In caso di bisogno essi si rivolgono alla famiglia, alla comunità, ai conoscenti, usando i servizi italiani solo quando non trovano appunto soluzioni interne al nucleo familiare e amicale o quanto meno alla comunità, riducendo così le possibilità di contatto con la società italiana.
Da queste informazioni si può comprendere il senso reale della chiusura di cui i cinesi sarebbero portatori. Essa in effetti dipende non solo dall’enorme difficoltà di comunicazione linguistica, ma anche, e soprattutto, dalle particolarità insediative di questa popolazione. Uomini e donne cinesi non stanno nelle nostre case, non sono nostri colleghi di lavoro. Questo basta a renderli ai nostri occhi lontani e diversi. E infine non va sottovalutato il fatto che, non essendo “vittimizzabili” secondo la tradizionale iconografia del migrante povero, i cinesi non trovano neppure sponde solidali e di ascolto da chi in genere le offre ad altri immigrati, riducendo ulteriormente le possibilità di relazione con il mondo circostante. Forse anche per queste ragioni un caso di conflittualità reale, come quello alla recente attenzione della cronaca, è potuto degenerare in un aspro contrasto seguito anche da qualche reazione xenofoba (seppur limitata a scritte sui muri).

[1] La stima e i dati provengono dall’indagine nazionale promossa dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e coordinata dalla Fondazione Ismu per valutare gli effetti della Regolarizzazione del 2002. Si tratta di un’indagine di 30mila casi, di cui 22mila presenti nelle regioni dell’Obiettivo 1 (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna e Molise) 8000 in altre 16 province del Centro Nord. I dettagli in Blangiardo, Farina (a cura di) Il Mezzogiorno dopo la grande regolarizzazione, Milano, F. Angeli, 2006
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