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L’Italia salvata dai nonni (finché regge la salute)*

Il welfare dei nonni

Lunga vita ai nonni! Se non ci fossero bisognerebbe inventarli. Senza di loro le famiglie italiane come farebbero? Ci sono, certo, le disposizioni della legge 53/2000 (congedi di maternità e genitoriali) che possono aiutare nei primi mesi (sempre che si abbia la fortuna di essere lavoratori dipendenti e di avere un reddito sufficientemente alto da potersi permettere la sua decurtazione al 30% prevista per il congedo genitoriale). Ma poi lo Stato e i comuni cosa fanno per aiutare le famiglie nella cura dei figli appena nati? Poco o nulla. La copertura degli asili nido, anche aggiungendo i servizi integrativi, rimane fortemente inadeguata. L’obiettivo fissato dall’Europa nel 2002, da raggiungere nel 2010, era pari al 33% ma l’Italia a tutt’oggi arriva a malapena alla metà.

Forti sono inoltre le disparità geografiche. Come riconosciuto nel ddl 1260 (“Disposizioni in materia di sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita fino ai sei anni e del diritto delle bambine e dei bambini alle pari opportunità di apprendimento”) a ricorrere a un qualche servizio socio-educativo pubblico sono il 14% dei bambini sotto i tre anni, con “differenze territoriali (…) molto ampie, tali da configurare una vera e propria questione meridionale anche in questo settore”. Complessivamente, secondo il dossier di Cittadinanza attiva un bambino su tre rimane senza posto.

Problema, quest’ultimo, che non si pone se si ha l’accortezza di vivere vicino ai nonni e la fortuna di averli in salute, in modo da poter avere un piccolo “asilo privato fai-da-te. Un recente studio di Aassve, Meroni e Pronzato (1) ha mostrato che la disponibilità di nonni per la cura dei (futuri) nipoti influenza direttamente le scelte riproduttive dei giovani italiani. Siamo così al paradosso che la disponibilità di cura dei nonni in molti casi non rappresenta più una soluzione di emergenza di fronte al fallimento delle politiche pubbliche, ma la “conditio sine qua non” per avere figli. I dati dell’indagine SHARE relativi all’anno 2011 poi, ci dicono che mediamente “solo” il 44% dei nonni in Italia fornisce aiuto di cura ai propri figli (una percentuale più bassa che in altri paesi Europei), ma quando lo fa è reclutato in maniera “quasi full time”. Infatti in Italia più della metà (51%) di chi ha badato a un nipote dichiara di averlo fatto quotidianamente, mentre in altri paesi la cura dei nonni è più sporadica e la percentuale di chi li bada tutti i giorni è decisamente inferiore: il 38% in Spagna e Polonia, l’11% in Germania,  il 9% in Francia, il 3% in Svezia e Danimarca

E’ così, insomma, che funziona il sistema di welfare italiano. Ma non si è fatto granché negli ultimi anni per cambiarlo radicalmente. Si è rimasti fedeli a quanto scritto nel documento presentato dall’allora Governo nel dicembre 2009 da titolo “Italia 2020. Piano per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro”, che a pagina 15 recita: “Sempre più numerose sono le famiglie nelle quali gli anziani, coabitanti o meno, offrono il loro aiuto nelle azioni di accompagnamento e di assistenza dei minori, assicurando così alla donna la possibilità di partecipare al mercato del lavoro, oppure mettono a disposizione la loro pensione nella vita familiare. E nello stesso tempo trovano nelle famiglie la risposta ai loro bisogni e alle loro paure. È questo il patto intergenerazionale che vogliamo promuovere” (2).

La conseguenza è quella di vincolare i giovani a formare un nuovo nucleo rimanendo non troppo lontani dal porto sicuro della famiglia di origine (a meno di non andarsene direttamente all’estero ), perché altrimenti chi li aiuta in caso di necessità? La pensione agli attuali nonni non la toglie nessuno, il lavoro è invece sempre più precario e sempre meno tutelato. Quindi meglio tenersi buoni i nonni, nel sistema italiano. Oppure rinunciare ad avere figli. E se si hanno figli e non si hanno a disposizione i nonni, a rimetterci è soprattutto l’occupazione della madre. Non a caso in Italia solo il 47% delle donne sono occupate (nell’Unione Europea solo Ungheria e Malta fanno peggio di noi. Siamo anche uno dei paesi europei con il più alto tasso di povertà tra i minori: secondo le key figures del Luxembourg Income Study nel 2010 circa il 27% dei minori viveva in una famiglia in situazione di povertà relativa. Un dato che ci mette vicini a paesi quali Grecia (25%), Spagna (28%) o Russia (26%), ma in una situazione peggiore rispetto a paesi quali Polonia (20%); Regno Unito (19%), Francia (19%), Danimarca (11%) o Olanda (10%). Similarmente i dati di Eurostat del 2013 relativi al rischio di povertà o esclusione sociale per bambini sotto i sei anni rivelano una situazione fortemente critica: il 28% in Italia, Spagna e Portogallo, contro il 21% della Francia, il 18% della Germania,il 16% della Svezia e il 14% dell’Olanda.

E ancor più il sistema mostra le sue lacune e la sua precaria sostenibilità in prospettiva, quando si considera anche la crescente necessità di accudimento degli anziani non autosufficienti. Anche su questo fronte la carenza di servizi pubblici si trasforma in un maggior carico sulle famiglie e soprattutto sulle donne, asse portante degli aiuti informali.

Oltre il “familismo”

Perché il modello italiano rischia di avvitarsi su se stesso? Colpa della cultura familista che predilige il ruolo della solidarietà intergenerazionale o dell’incapacità politica di costruire un moderno sistema di welfare pubblico? Secondo Alesina ed Ichino (3) il problema è soprattutto culturale: agli italiani piace così. Hanno scelto loro un modello di sviluppo basato sull’economia informale e su un welfare “fai da te”. Legami familiari forti e grande sfiducia nei confronti del pubblico e dello Stato in generale hanno radici antropologiche profonde nell’area mediterranea. Ne deriva, secondo i due economisti, che gli italiani non vogliono più asili nido e che più che potenziare i servizi per l’infanzia sarebbe necessario incentivare il lavoro femminile (ad esempio attraverso una tassazione differenziata che renda più conveniente ai datori di lavoro assumere una donna anziché un uomo).

Al contrario, a nostro avviso, proprio l’investimento sui servizi pubblici, sia in termini di quantità che di qualità, potrebbe produrre i maggiori benefici (4). E’ proprio su questo aspetto che l’Italia è più carente. Del resto, il nostro paese soffre non solo di bassa occupazione femminile, ma, come ben noto, anche di bassa fecondità (5). E’ quindi soprattutto sulla possibilità di conciliare tali due ambiti di impegno e di realizzazione che bisogna prioritariamente puntare.

Certo, le misure di conciliazione devono essere di ampio spettro e favorire l’impegno dentro e fuori le mura domestiche di entrambi i membri della coppia (si pensi al potenziamento del part-time, all’introduzione di un congedo di paternità obbligatorio, ecc.). L’asilo nido è però uno degli strumenti indispensabili per una coppia di lavoratori che non voglia rinunciare ad avere figli non avendo nonni a disposizione. Non solo, la qualità stessa del servizio diventa anche il mezzo attraverso il quale attivare un nuovo rapporto di fiducia tra le famiglie e lo stato, superando alcune resistenze di fondo che non costituiscono un destino immutabile (5).

Chi, poi, ha i nonni a disposizione potrà continuare a preferirli, ma almeno non sarà costretto a condizionare le proprie scelte di vita alla loro prossimità abitativa e alla loro salute. Senza un welfare pubblico adeguato, efficiente e di qualità, le alternative non ci sono e gli aspetti più deteriori del familismo sono destinati a perpetuarsi.

Note

(1) Aassve A., Meroni E. e Pronzato C. (2012) Grandparenting and childbearing in the extended family. European Journal of Population 28: 499-518.

(2) M. Albertini (2009) “Italia 2020: la ricetta del governo è il familismo”, www.lavoce.info.

(3) A. Alesina, A. Ichino (2009), L’Italia fatta in casa, Mondadori, Milano.

(4) D. Del Boca, C. Pronzato, G. Sorrenti  (2013), I nidi della crisi.

(5) A. Rosina, a. de Rose (2014), Demografia, Egea editore ,Milano.

 

*Articolo già pubblicato il 20-01-2010 e aggiornato al 10 gennaio 2015

 

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