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Una vita di lavoro

La riforma “Dini” (1995) ha introdotto – in verità in maniera molto diluita e progressiva – il sistema di calcolo contributivo delle pensioni. Poiché il capitale virtualmente accumulato, interessi a parte, dipende da quanto si guadagna, moltiplicato per l’aliquota contributiva (costante), moltiplicato ancora per il numero di anni di lavoro, ecco che il rapporto tra il numero di anni di lavoro e il numero di anni di pensione diventa particolarmente interessante: fornisce una misura demografica, semplice ma rivelatrice, del carico previdenziale. Facciamo allora un po’ di calcoli.
Il calcolo sul presente
Se i “comportamenti” lavorativi e non lavorativi osservati, età per età, nel 2005 fossero rappresentativi della vita di una generazione, nei 50 anni che vanno dal 15° al 65° compleanno (l’intervallo di tempo che stiamo qui considerando come potenzialmente lavorativo), otterremmo una distribuzione del tempo simile a quella della Figura 1.
In media, dunque, un uomo lavorerebbe per poco meno di 33 anni; una donna, per poco più di 21. Se attribuiamo queste durate totali solo a coloro che presumibilmente hanno un’esperienza di lavoro[1], la durata totale arriva a quasi 36 anni per gli uomini e a 34,3 per le donne.
Ipotizzando una progressività d’uscita dall’occupazione, la media dei periodi di quiescenza (in termini più demografici, la vita media che ci si può attendere a partire dall’età media di uscita dal lavoro) si può calcolare in 17,3 anni per gli uomini e in 27,9 per le donne[2]. Da questi calcoli sembrerebbe dunque che il rapporto tra la vita lavorativa e quella da pensionati sia pari a 2,1 per gli uomini e a 1,2 per le donne.


I diversi comportamenti delle generazioni

Se però ricostruiamo, per il possibile, la storia lavorativa di alcune generazioni, ci accorgiamo che i comportamenti sono notevolmente cambiati nel corso del tempo. Ad esempio, la metà dei lavoratori maschi nati tra il 1946 ed il 1950 ha cominciato a lavorare prima dei 19 anni, mentre nelle generazioni nate tra il 1961 ed il 1965 ciò è avvenuto, in media, solo dopo i 21 anni (Tab. 1). Per le donne, questo ritardo è stato ancor più importante: da meno di 17 anni a quasi 22 anni, a riprova del grande balzo che le giovani donne hanno segnato nel giro di poche generazioni nel prolungamento e nella diffusione dell’istruzione superiore.

Tab. 1 – Età mediana d’ingresso e durata totale dell’occupazione al 50° compleanno di alcune generazioni, per genere: Italia (anni e frazioni di anno)
Generazioni
(anno di
nascita)
Maschi
Femmine
Età
mediana
d’ingresso
Durata totale della occupazione a 50 anni
Età
mediana
d’ingresso
Durata totale della occupazione a 50 anni
occupati
totale
occupati
totale
1946-1950
18,9
30,0
29,3
16,9
30,8
15,1
1951-1955
19,9
29,6
28,0
17,2
30,6
16,2
1956-1960
20,4
28,7
27,1
20,2
25,0
17,2
1961-1965
21,1
21,9
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagini sulle forze di lavoro, vari anni.
Anche gli anni di lavoro cumulati fino al 50° compleanno, cioè all’inizio della fase di uscita per pensionamento, sono andati diminuendo, sia per gli occupati maschi (-1,3 anni tra i nati tra il 1946 ed il 1950 e quelli del 1956-1960) sia, molto di più, per le femmine (-5,8 anni). Per queste ultime, però, la crescente partecipazione ufficiale all’attività lavorativa ha consentito di recuperare anni di lavoro da 15,1 per le generazioni più anziane (del 1946-50) a 17,2 per quelle più recenti (del 1956-60).
A 50 anni, queste generazioni hanno potuto contare su una durata residua della vita che si è andata allungando ogni anno di circa 0,3 anni e che ha ormai superato i 30 anni per gli uomini ed i 35 per le donne. Per tutte le generazioni, quindi, l’equilibrio contributivo richiederebbe la permanenza al lavoro ben oltre il 50° compleanno, così come, del resto, hanno fatto le generazioni 1946-1950 che, giunte al 60° compleanno, hanno cumulato circa 36 anni di lavoro gli uomini e 18,5 le donne.

Luci e ombre nel futuro

Le preoccupazioni maggiori riguardano soprattutto le generazioni più recenti, quelle che hanno rinviato ancora di più il loro ingresso sul mercato del lavoro o hanno trovato particolari difficoltà ad iniziare un lavoro che producesse una contribuzione previdenziale. Per molti dei loro componenti – ai quali si applicherà integralmente la riforma “Dini” – la storia contributiva e lavorativa dovrà necessariamente estendersi al di là del 60° compleanno per assicurare l’equilibrio previdenziale. In breve: il lavoro oltre i 60 anni diventerà la norma, e non più l’eccezione, e sarebbe bene prepararsi fin d’ora a questo scenario, sia come individui sia come collettività, ad esempio cominciando a pensare a seri programmi di aggiornamento e riqualificazione professionale.
Questa esigenza, però, potrebbe venire mitigata da due fattori che agiscono nel senso opposto. Da una parte, l’aumento dell’attività lavorativa femminile, che è oggi particolarmente bassa in Italia in rapporto agli altri paesi industrializzati, e che ha dunque più ampi margini di crescita. Dall’altra, l’ingresso di un significativo numero di immigrati, per i quali il rapporto tra anni di lavoro e anni di pensione appare, al momento, particolarmente alto.


[1] Li si può stimare facendoli corrispondere al massimo toccato dal tasso di occupazione specifico per età, ipotizzando quindi per una generazione un solo ingresso progressivo ed una sola uscita dall’occupazione lungo tutto l’arco della vita lavorativa. Quest’ipotesi può sostanzialmente tenere, salvo gli eventuali periodi di disoccupazione, per gli uomini; è certamente meno valida per l’occupazione femminile, nella quale avvengono ancora importanti rotazioni di persone alle diverse età.
[2] Per le ragioni dette nella nota precedente la speranza di vita delle neo-pensionate da lavoro risulta sovrastimata a causa di coloro che hanno abbandonato troppo precocemente il lavoro per poter avere diritto alla pensione.
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