Popolazione mondiale:

Popolazione italiana:

Giovani (0-19 anni):

Anziani (64+ anni)

Un paese fondato più sulle pensioni che sul lavoro (*)

Esiste un paese nel quale, più che altrove, si vive a lungo e in buona salute, maggiore è la consistenza della popolazione anziana, ma anche dove, paradossalmente, è relativamente precoce l’età alla pensione e minore la partecipazione attiva in età matura al mercato del lavoro. Un paese governato male, verrebbe da pensare, perché non in grado di valorizzare adeguatamente risorse e potenzialità. Ed infatti si tratta proprio della nostra amata e sconsiderata Italia.
 
Tanti, in buona salute, ma poco attivi nel mercato del lavoro
 
Ma veniamo ai dati. Secondo lo scenario centrale delineato dalle ultime previsioni Istat, la popolazione nella classe 30-44 anni nei prossimi vent’anni è destinata a perdere circa 3 milioni e mezzo di unità e quella 50-64 a guadagnarne quasi altrettante.
Questo grande travaso dalla fascia più giovane a quella più matura della popolazione attiva non sarebbe di per sé particolarmente negativo per la crescita del paese e la sostenibilità del sistema sociale se i livelli di occupazione (ed in parte anche di produttività) dei cinquantenni italiani non fossero così bassi, anche rispetto ai coetanei del resto del mondo sviluppato. La media europea del tasso di occupazione degli older workers (55-64) è pari al 44,7% contro il 33,8% italiano. Anche limitando il confronto ai paesi del Sud Europa, la situazione del nostro paese si contraddistingue negativamente: ci troviamo, ad esempio, dieci punti percentuali sotto la Spagna (Figura 1).
Un’anomalia italiana, che però, riguarda in modo inusualmente uniforme l’intera penisola. Se infatti, com’è ben noto, la bassa occupazione giovanile e femminile interessano soprattutto il meridione, la ridotta partecipazione dei cinquantenni al mercato del lavoro unisce in un abbraccio soffocante tutto lo stivale. Il tasso di occupazione nella fascia 55-64 è infatti pari a 32,5% nel Nord e al 33,8% nel Mezzogiorno. Quello femminile è pari al 20% nell’area meridionale, ma si arriva solo a poco più del 23% in quella settentrionale. Il problema della precoce età di uscita dal mercato del lavoro è quindi generalizzato.
 
La scorciatoia poco virtuosa del pensionamento precoce
 
L’età mediana effettiva di pensionamento, nel 2005, è stata in Italia di due anni più bassa rispetto alla media europea: 57/58 anni per donne/uomini, contro 59/60 nell’Europa a 25 (1). Dato curioso se si pensa che la nostra durata media di vita è invece di quasi due anni superiore rispetto al resto del continente (2). Coerentemente con questi dati, secondo l’Ocse (3), l’Italia risulta essere il paese nel quale i cinquantenni meno escono dal mercato del lavoro per motivi di salute e più per pensionamento.
L’uscita prematura di lavoratori ancora potenzialmente attivi è però una scorciatoia che sempre meno possiamo e potremo permetterci (4). E’ infatti la risposta inefficiente e poco virtuosa a tutta una serie di rigidità e sprechi di risorse che non consentono di valorizzare adeguatamente i lavoratori più anziani. Categoria che invece noi, più di altri, abbiamo bisogno di far crescere.
Uno dei freni è l’elevato costo dei lavoratori maturi. Troppo ampio è il divario tra un 55enne e un 25enne in termini di remunerazioni medie, che dovrebbero invece essere meno legate all’anzianità e più all’effettiva produttività. Ma è cruciale anche ridurre l’obsolescenza del capitale umano investendo maggiormente in lifelong learning. Secondo i dati Ocse, solo in Portogallo e Ungheria i cinquantenni seguono meno corsi di aggiornamento rispetto a quanto avviene da noi.  Il mondo cambia velocemente e richiede lavoratori sempre più aggiornati e flessibili, in grado di adattarsi alle continue trasformazioni che impone un mercato che deve rimanere competitivo. I cinquantenni italiani vengono considerati nel complesso troppo costosi e troppo rigidi. Le stesse aziende preferiscono disfarsene quanto prima, preferendo sfruttare le possibilità di pensionamento precoce che investire in formazione continua. Molto bassa in Italia è poi anche la diffusione del part-time, che invece si è rivelato essere negli altri paesi uno strumento particolarmente favorevole al prolungamento della permanenza nel mercato del lavoro in età avanzata.
 
Costringersi a fare di necessità virtù
 
Aumentare attivamente quantità e qualità della partecipazione dei lavoratori maturi è quindi una necessità ineludibile per lo sviluppo del nostro paese. Siamo uno degli stati in Europa nei quali l’invecchiamento incide di più, ma anche tra i meno preparati ad affrontarlo. Bisogna quindi agire con urgenza se si vuole evitare il rischio “che il nostro paese non riesca neanche a mantenere negli anni futuri l’attuale livello di benessere economico e si allontani dai livelli di reddito delle economie oggi simili alla nostra” (5).
Sul versante positivo c’è fortunatamente il fatto che non solo gli anziani italiani aumentano quantitativamente, ma vivono a lungo e bene; meglio, nel complesso, che nel resto d’Europa (6). Questa è un’opportunità da valorizzare. Che chi ha salute e vuole lavorare, venga messo nelle condizioni per poterlo fare al meglio, è quindi l’obiettivo da realizzare. Eliminare vincoli e rigidità che impediscono in Italia più che altrove che questo avvenga dovrebbe essere la priorità e non invece la difesa ad oltranza di una precoce età al pensionamento.
Ciò vale per entrambi i generi, ma ancor più per le donne. Come abbiamo visto, nello stesso Nord Italia l’occupazione femminile in età matura è sensibilmente più bassa non solo rispetto alla media Europea, ma anche relativamente alla Spagna e agli altri paesi del Sud Europa. Ci sono quindi risorse importanti per vincere la sfida dell’invecchiamento e dello sviluppo. Risorse che possono essere liberate solo a condizione che, da un lato, lo Stato investa fortemente sugli strumenti di conciliazione e, dall’altro, le maggiori forze sociali e di rappresentanza femminile non si arrocchino sulla difesa della bassa età al pensionamento.
Se non si coglie l’occasione della crisi per riforme coraggiose, il rischio è che, all’uscita, l’Italia si ritrovi ancora vincolata nelle sue potenzialità di crescita, arrancando quando tutte le altre economie riprenderanno a correre.
 
 
Note
(1) Eurostat, “Transition of women and men from work to retirement”, Statistics in focus 97/2007 (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-SF-07-097/EN/KS-SF-07-097-EN.PDF).
(2) Eurostat, Statistical yearbook, 2008 (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-CD-07-001/EN/KS-CD-07-001-EN.PDF). Nel 2003, la durata media della vita per donne/uomini è stata di 83/77 anni in Italia, contro 81/75 nell’Europa a 27. Nel frattempo, l’Istat, nelle sue ultime tavole di mortalità (http://demo.istat.it/unitav/index.html?lingua=ita), relative al 2006, indica che siamo ormai arrivati a 84/78.
(3) OECD, Live Longer, Work longer, 2006.
(4) A. Rosina, “La pensione? A 65 anni per tutti”, www.lavoce.info
(5) I. Visco, “Invecchiamento della popolazione, immigrazione, crescita economica”, relazione presentata alla Riunione Annuale della Società Italiana degli Economisti, 2008.
(6) F. Ongaro, S. Salvini (a cura di), Rapporto sulla popolazione. Salute e sopravvivenza, il Mulino, 2009.
 
 
(*) Articolo presente anche su www.nelmerito.com
 

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