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Stranieri in patria. D’altri. The story two years later*

Alle questioni demografiche è difficile guardare con il distacco e con la memoria storica che pur sarebbero necessari per capire meglio i problemi, le possibili soluzioni e i loro tempi, comunque lunghi. E, nell’ambito delle questioni demografiche, le migrazioni costituiscono forse il nervo più scoperto, almeno in tempi moderni, probabilmente perché riguardano il nostro sentimento di appartenenza, e quindi anche il senso stesso della nostra esistenza, e perché riflettono la nostra istintiva paura dell’ignoto e del diverso. Ma anche, diciamocelo, perché c’è chi queste paure le alimenta, per fini politico-elettorali.

Prendiamoci allora un momento di riflessione per capire meglio il fenomeno, il che significa però, lo anticipiamo subito, riconoscerne la complessità: i contorni del problema sono sfumati e cambiano continuamente, e le semplici dicotomie (noi-loro; dentro-fuori), se mai hanno avuto un senso, lo stanno perdendo sempre più.

In soli due anni, o quasi, dalla prima versione di quest’articolo le riflessioni proposte risultano sostanzialmente confermate, con dinamiche che si sono consolidate, qualche novità, e certe considerazione in fase di evoluzione, in particolare sull’importanza delle varie componenti dei flussi migratori provenienti dall’estero.

Uno sguardo d’insieme

Le migrazioni sono sempre esistite, e sono sempre state forti: le Americhe (non solo quella del Nord), si sono popolate, dal ‘500 in poi, per l’arrivo e l’insediamento degli Europei; le città hanno sempre avuto un saldo naturale negativo (più morti che nati), ma nonostante questo sono molto cresciute, e assorbono oggi più della metà della popolazione mondiale, per il continuo afflusso di migranti, a breve e a lungo raggio; guerre, persecuzioni e sconvolgimenti naturali (tellurici, climatici, ecc.) hanno sempre avuto una coda di fughe di massa, con riallocazioni, a volte temporanee ma spesso definitive, di ampie fette di popolazione.

Cosa è cambiato, dunque, in questi ultimi anni? Intanto, l’informazione: sappiamo prima e più facilmente che cosa avviene, in Italia e nel resto del mondo; e il resto del mondo sa di noi. Sa, in particolare, che siamo ricchi (con un Pil pro capite che, rispetto ai paesi di provenienza può facilmente essere 10 o 20 volte più alto) e può rapidamente stimare i potenziali vantaggi economici di una migrazione.

Poi sono cambiati i mezzi di trasporto: con minor spesa, sarebbe possibile oggi muoversi rapidamente e con facilità da un punto all’altro del continente. Qui il condizionale è però d’obbligo, perché di fronte a un’accresciuta facilità “tecnica” della mobilità si trova invece un’accresciuta difficoltà “politica”: i controlli alle frontiere, nati all’ingrosso un secolo fa, con lo scoppio della prima guerra mondiale, sono da allora diventati sempre più capillari e stringenti.

Poi è cambiato il mondo: non ci sono più spazi vuoti da occupare più o meno liberamente. (beh, a dire il vero, più spesso semi-vuoti, da occupare a danno di popolazioni indigene sparsamente insediate e poco organizzate). Il miliardo di abitanti del pianeta del 1800 (circa) si è moltiplicato per sette, e in tutti i paesi del mondo, o quasi, prevale ormai la sensazione del “siamo già troppi così, non c’è posto per altri”. Questo cambiamento è stato causato dalla “transizione demografica”, ossia dalla riduzione della mortalità e poi della fecondità, che, in tutto il mondo, ha prodotto intanto la crescita del numero di abitanti, e poi, tipicamente un’ondata di ringiovanimento della popolazione, seguita però, a una cinquantina danni di distanza, dall’invecchiamento e, in prospettiva, dal decremento demografico. Solo che queste ondate non sono state sincrone nei vari paesi: per l’Italia e l’Europa nel suo complesso, la fase di invecchiamento e potenziale declino è già iniziata; il vicino oriente, l’America Latina, l’Africa mediterranea e quasi tutta l’Asia sono di qualche anno indietro rispetto a noi, e la loro popolazione in età attiva è ancora in crescita, sia pur rallentata; l’Africa sub-sahariana è in piena espansione.

Infine, i tempi dei cambiamenti sono accelerati: le crisi economiche e politiche possono colpire quasi da un giorno all’altro, e nuove emergenze (economiche o umanitarie) appaiono ormai spesso, e all’improvviso.

L’emergenza umanitaria

L’emergenza umanitaria degli ultimi tre anni (2014-2016), ad esempio, è stata particolarmente forte, con un totale di oltre 500 mila persone sbarcate sulle coste italiane (figura 1) e migliaia di morti nel Mediterraneo.

I dati provvisori relativi alla prima metà del 2017 confermano il perdurare di questa emergenza: il numero delle persone salvate in mare e sbarcate sulle nostre coste è del 10% maggiore di quello registrato nello stesso periodo del 2016, anno che a sua volta aveva fatto registrare il massimo assoluto. Per trovare una crisi internazionale di proporzioni più o meno simili bisogna risalire ai primi anni ‘90 e alla guerra civile nella ex Iugoslavia. Ma lì gli spostamenti sono stati prevalentemente terrestri, e l’Italia ha avuto un ruolo solo marginale nell’accoglienza dei profughi (furono concessi nel periodo 1992-94 circa 40 mila permessi di soggiorno per motivi umanitari, con possibilità di svolgere attività lavorativa, a cittadini della ex Iugoslavia).

Poco prima di allora, nel 1991, fortissima è stata l’ondata migratoria arrivata dall’Albania, con le navi cariche di migranti attraccate nei porti di Brindisi e di Bari. Ma si trattava, in quel caso, di quelli che oggi definiremmo migranti economici. Complessivamente arrivarono in 40-50 mila, una parte fu distribuita tra le province italiane, un’altra parte rimpatriata. In migliaia richiesero lo status di rifugiato che solo in pochissimi casi fu concesso. Ma il flusso non si arrestò e annualmente continuarono ad arrivare decine di migliaia di albanesi, un’immigrazione silenziosa, lontana dal clamore delle cronache, che a seguito delle ripetute regolarizzazioni (se ne contano otto a partire da quella lanciata alla fine del 1986) ha portato il numero di residenti in Italia a sfiorare le 500.000 persone alla fine del 2013 (successivamente sceso a meno di 450.000 per effetto delle acquisizioni della cittadinanza italiana) e a collocare la comunità albanese al secondo posto nella graduatoria per numerosità dei gruppi stranieri residenti in Italia.

La figura 1 evidenzia una correlazione piuttosto stretta tra il numero di sbarchi e il numero di richiedenti asilo (il coefficiente di correlazione lineare è pari a 0,93). Complessivamente, dal 1997 al 2016, si contano quasi 950 mila persone sbarcate in Italia, un po’ meno di 600 mila richiedenti asilo e un totale di 210 mila riconoscimenti di una qualche forma di protezione (42 mila rifugiati secondo la Convenzione di Ginevra, 112 mila protezioni umanitarie e 56 mila protezioni sussidiarie), su 507 mila casi esaminati. Le cifre non cambiano di molto se l’attenzione è estesa indietro nel tempo fino al 1990 (cioè se il periodo considerato è 1990-2016): le richieste di asilo salgono a 641 mila e le concessioni a 214 mila su un totale di quasi 550 mila domande esaminate. Senza dubbio evidente è invece il cambiamento registrato a partire dal 2011, cioè a seguito delle cosiddette “primavere arabe”. In soli sei anni le domande di asilo sono state oltre 350 mila (il 55% degli ultimi 27 anni) con una progressione davvero notevole: fino al 2013 non avevano mai superato le 40 mila richieste annue, ma negli ultimi tre anni sono cresciute da oltre 63 mila a quasi 84 mila prima (nel 2015) e a più di 123 mila poi (nel 2016).

Quelli degli ultimi tre anni sono numeri senza dubbio elevati, che hanno spinto il governo italiano ad adottare con decretazione d’urgenza (decreto-legge n. 13/2017, noto come decreto Minniti-Orlando, convertito nella legge n. 46/2017), disposizioni volte ad accelerare i tempi di esame delle pratiche di asilo (ed è un bene), anche a scapito dei diritti dei richiedenti (e questo certamente non va bene). Va ricordato però che l’Italia in passato è stata poco coinvolta in questi problemi e solo negli ultimi anni si è trovata ad affrontarli, essendo diventata, insieme alla Grecia, una delle principali destinazioni del flusso di persone che attraverso il Mediterraneo cercano di approdare in Europa. Ancora pochi anni fa, nel periodo 2010-14, ad esempio, ai paesi dell’UE28 sono arrivate quasi 2 milioni di domande di asilo, di cui meno di 160 mila in Italia (l’8% del totale). Fino a qualche anno fa i richiedenti asilo si dirigevano prevalentemente verso altri paesi europei, tanto che in Italia nel periodo 1990-2014 abbiamo accolto in media appena 6.000 persone all’anno, tra rifugiati e beneficiari di protezione umanitaria o sussidiaria. Negli ultimi due anni ci sono state complessivamente più di 200 mila richieste e quasi 65 mila riconoscimenti concessi su un totale di oltre 160 mila domande esaminate. Certamente qualcosa è cambiato, questo non vuol dire che solo di recente siamo diventati paese di immigrazione, né tantomeno che l’immigrazione sia costituita solo da richiedenti protezione internazionale e irregolari.

Più immigrazione “normale” che sbarchi e rifugiati

Gli immigrati che arrivano sulle carrette del mare sono giustamente oggetto di un’attenzione continua da parte dei mass media. Rischiano la loro vita per raggiungere l’Europa, e già in migliaia sono morti nel Mediterraneo. Spesso sono richiedenti asilo e hanno bisogno di aiuto e assistenza immediati. Numerosi sono anche i minori non accompagnati (nel 2016 ne sono arrivati via mare quasi 26 mila). Sbarchi e richieste di asilo, nonostante la grande copertura mediatica che viene loro riservata, non sono però i fenomeni numericamente prevalenti, nel quadro migratorio complessivo. Quantomeno, non costituiscono l’unica faccia di un fenomeno certamente più articolato per categorie e caratteristiche dei soggetti coinvolti. La figura 2 ci aiuta a capire che sbarchi e richieste di asilo non sono la componente più importante neppure oggi, in questo periodo di grande emergenza, e meno ancora lo sono se allarghiamo l’orizzonte indietro agli ultimi decenni. L’immigrazione che sempre ha prevalso, e che ancora prevale, è quella che segue altre vie: la più tipica delle quali è quella o dei cittadini comunitari, ad esempio dalla Romania o dalla Polonia, che hanno diritto di muoversi liberamente sul nostro territorio, oppure degli “overstayers”, persone cioè che sono entrate in Italia con un visto temporaneo (ad esempio per studio o per turismo) e che poi sono rimaste, per cercare di costruire qui la loro vita. Favorite in questo dal nostro frequente ricorso a sanatorie e cambi di legislazione, come in parte ricordato nella stessa Figura 2. Limitando l’attenzione ai cittadini non UE, si può notare che soltanto negli ultimi due anni le motivazioni riconducibili alla protezione internazionale abbiano assunto un peso rilevante, per quanto non maggioritario, all’interno dei nuovi permessi di soggiorno (il 28,3% nel 2015 e intorno al 42% nel 2016, valore provvisorio e relativo ai soli maggiorenni).

Ma facciamo un lungo passo indietro. È dal 1973 che l’Italia, che per un secolo era stata un importante paese di emigrazione, si è trasformata (anche) in un paese di immigrazione. All’inizio prevalevano i ritorni degli italiani precedentemente emigrati, soprattutto in Europa, ed espulsi dal mercato del lavoro con la crisi dei primi anni ’70, e poi, poco a poco, hanno preso il sopravvento gli arrivi di stranieri. La novità del fenomeno ha creato anche non poche difficoltà di misurazione, che sono state però progressivamente affrontate e (quasi) superate, benché le varie fonti parlino ancora linguaggi diversi.

Se ci riferiamo all’anagrafe, si contano oggi oltre 5 milioni di stranieri iscritti (figura 3), che corrispondono a più dell’8% del totale dei residenti. Non è poco, ma non è un record in Europa (figura 4a e 4b): per incidenza sulla popolazione complessiva ci battono non soltanto due “fuoriclasse” come Lussemburgo (oltre 45% di stranieri) e Svizzera (quasi 25%), ma anche paesi comparabili a noi per dimensione demografica, come Germania, Spagna e Regno Unito (figura 4b). Ma questi numeri non dicono tutto: gli stranieri in Italia sono un po’ più dei 5 milioni dell’anagrafe. Ci sono ancora oltre 400 mila stranieri con regolare permesso di soggiorno, ma non iscritti in anagrafe, e ci sono pure gli irregolari, il cui numero è ignoto per definizione, ma che si possono stimare nell’ordine di meno di 450 mila (ISMU, 2017). In totale si sfiorano i 5,9 milioni al 2016.

Forse si potrebbe però continuare a contare: eh già, perché è (relativamente) facile attribuire un’etichetta giuridica di italiano o straniero a una persona, ma la realtà è spesso assai più sfumata. Abbiamo anche oltre 1,3 milioni di italiani “per acquisizione” (in passato prevalentemente per matrimonio, ma ormai sono più numerose le acquisizioni per residenza ultradecennale, oltre che quelle dei minori per trasferimento della cittadinanza dai genitori diventati italiani e dei giovani neo-maggiorenni – figli di stranieri, ma nati e residenti da sempre in Italia; figura 5) e oltre 400 mila figli di coppie miste, che sono italiani a tutti gli effetti legali, ma che sono nondimeno portatori di una certa parte di “innovazione”, o “alterità” a seconda di come la si vuol guardare (figura 6). E c’è anche un numero imprecisato di figli di coppie “non più miste”: coppie, cioè, formate in origine da italiani e stranieri, ma nelle quali il partner straniero ha successivamente (anche grazie al matrimonio) acquisito la cittadinanza italiana. Insomma, nonostante la legislazione orientata (prevalentemente) verso lo ius sangiunis, crescono i nuovi italiani (nel 2016 più di 200 mila in più) e il collettivo complessivo della popolazione straniera e di origine straniera supera ormai i 7,5 milioni di persone. Tra queste i cittadini di paesi terzi (non UE) titolari di un permesso di soggiorno per una qualche forma di protezione internazionale sono una piccola minoranza: 155 mila ad inizio 2016, pari al 2% dell’intero collettivo, al 3% dei residenti e a meno del 4% dei titolari di permesso. Si tratta senza dubbio di una prospettiva differente da quella fornita dalla lettura dei flussi migratori recenti.

Gli stranieri e noi

È chiaro che la presenza straniera in Italia ha moltissime facce, che non possono essere tutte trattate in questa sede, ma che meritano grande attenzione. Limitiamoci ad alcune delle più evidenti. La prima è che l’arrivo degli immigrati ha in certa misura compensato la nostra bassa natalità e rallentato il processo di invecchiamento della popolazione italiana (Gesano e Strozza 2011; Strozza e De Santis 2017). Ignorando la componente “intermedia” di cui si è parlato prima (italiani con origine straniera – che comunque, se considerati, rafforzerebbe le argomentazioni che stiamo qui portando, di contributo al minor invecchiamento) e limitandoci ai soli stranieri veri e propri, possiamo dare un’occhiata alla piramide per età dei residenti in Italia all’inizio del 2017 (figura 7). Ebbene, si vede chiaramente che la base sarebbe ancora più stretta, e l’ingrossamento nelle età adulte meno marcato (mentre più accentuano il declino delle età adulte più giovani), se non fosse per la presenza degli stranieri. La loro età media è infatti molto minore (34 anni, contro i 46 degli italiani “doc”), per la quasi assoluta mancanza (per ora) di stranieri anziani in Italia (meno del 4%).

Per ragioni anagrafiche, quindi, gli stranieri praticamente non compaiono tra i pensionati (e, per ragioni legislative, sono comunque spesso destinati a perdere i soldi che hanno versato in contributi: si veda il rapporto annuale INPS 2016), e sono poco presenti anche tra i beneficiari di cure mediche o ospedaliere, ma sono invece robustamente presenti, e in crescita, tra coloro che lavorano (e pagano tasse e contributi), anche se spesso in posizioni lavorative più deboli (più precarie e a reddito più basso). Questa loro maggiore precarietà spiega anche la loro sovra-rappresentazione tra i disoccupati (figura 8).

In ogni caso, il bilancio anche solo economico della loro presenza è per l’Italia largamente positivo: la Fondazione Moressa (2015; 2016), ad esempio, ha stimato per gli ultimi anni un saldo attivo per lo stato italiano di alcuni miliardi di euro attribuibile alla presenza straniera. Infatti, nel 2012 a fronte di circa 16,5 miliardi di entrate pubbliche (tra imposte, tasse e contributi), la spesa pubblica a favore degli stranieri (comprensiva di tutte le voci: sanità scuola, servizi sociali, casa, giustizia, Ministero degli Interni e trasferimenti) è stata di “appena” 12,6 miliardi. Anche negli anni successivi il saldo costi-benefici è rimasto ampiamente positivo (nel 2014 di 2,2 miliardi). Per valutare l’impatto dei flussi migratori sul proprio bilancio, INPS ha fatto una simulazione ipotizzando la chiusura totale delle frontiere e confrontando le poste di bilancio ottenute con quelle corrispondenti al caso in cui i flussi in entrata fossero rimasti per l’intero periodo di proiezione (2018-2040) uguali a quelli pre-crisi (INPS 2017, p. 131-132). L’Istituto è quindi arrivato a stimare un effetto dovuto allo stop all’immigrazione (per lavoro) di segno negativo (la diminuzione del gettito contributivo è risultata maggiore della diminuzione della corrispondente minore spesa per prestazioni pensionistiche) e crescente nel tempo, che raggiungerebbe nel 2040 un importo cumulato pari a oltre l’1,8% del Pil. Un altro elemento economico a sostegno dell’immigrazione che è (anche) un bel business per noi – ma è un vantaggio di cui, a quanto pare, non sappiamo (o non vogliamo) renderci pienamente conto.

Riuscire a governare l’immigrazione forzata e quella per lavoro e ricongiungimento familiare, creando le condizioni per la piena integrazione dei migranti e dei loro discendenti, appare una sfida impegnativa che l’Italia e l’Europa hanno l’obbligo di accettare, non solo per motivi umanitari, ma forse ancora di più per garantirsi adeguate ed equilibrate condizioni di sviluppo futuro. L’approvazione del disegno di legge Zampa su “Disposizioni in materia di protezione dei minori stranieri non accompagnati” (legge n. 47/2017) appare un segnale positivo che va nella giusta direzione.

Note

*L’articolo proposto è un aggiornamento con qualche integrazione a «Stranieri in Patria. D’altri», Neodemos, 10 Novembre 2015, pubblicato anche su Prometeia, Anteo, anno XI, n.85, pp. 17-22.

per saperne di più

Bonifazi Corrado, Livi Bacci Massimo (a cura di) (2016), Profughi, Neodemos, Firenze.

De Rose Alessandra, Strozza Salvatore (a cura di) (2015), Rapporto sulla popolazione. L’Italia nella crisi economica, il Mulino, Bologna.

Fondazione Moressa (2015), Rapporto annuale sull’Economia dell’immigrazione. Edizione 2015. Stranieri in Italia, attori dello sviluppo, il Mulino, Bologna.

Fondazione Moressa (2016), Rapporto annuale sull’Economia dell’immigrazione. Edizione 2016. L’impatto fiscale dell’immigrazione, il Mulino, Bologna.

Gesano Giuseppe, Strozza Salvatore (2011), “Foreign migrations and population aging in Italy”, Genus, vol. LXVII, n. 3.

INPS (2015), L’INPS e le pensioni all’estero: un fenomeno in continua evoluzione, Direzione centrale Convenzioni Internazionali e Comunitarie, Roma.

INPS (2017), XVI Rapporto annuale INPS, Roma.

ISMU (2016), Ventunesimo Rapporto sulle migrazioni 2015, FrancoAngeli, Milano.

ISMU (2017), Ventiduesimo Rapporto sulle migrazioni 2016, FrancoAngeli, Milano.

Istat, sito www.demoistat.it

Istat (2015), Cittadini non comunitari: presenza, nuovi ingressi e acquisizioni di cittadinanza, Statistiche report, 22 ottobre.

Livi Bacci Massimo (2007), Popolazione: storia ed evoluzione, Enciclopedia Treccani della Scienza e della Tecnica.

Livi Bacci Massimo (2015), La quarta globalizzazione, Limes, 6/2015 “Chi bussa alla nostra porta”.

Neodemos (a cura di) (2015) L’integrazione delle comunità immigrate e l’imprenditoria straniera, Neodemos, Firenze.

Strozza Salvatore, De Santis Gustavo (a cura di) (2017), Rapporto sulla popolazione. Le molte facce della presenza straniera in Italia, il Mulino, Bologna.

 

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