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Stiamo perdendo la “sfida dell’invecchiamento”?

La Commissione Europea, il 12 ottobre 2006, proponeva le sue linee guida su “Il futuro demografico dell’Europa, trasformare una sfida in un’opportunità”, con l’obiettivo di delineare le risposte politiche da dare alle tendenze della popolazione europea e, in particolare, alle problematiche connesse all’invecchiamento.
Le linee guida della Commissione Europea
A tal fine, si delineavano le strategie che gli stati membri avrebbero dovuto perseguire per affrontare le numerose sfide connesse all’invecchiamento. Si affermava, tra l’altro, la necessità di adottare delle politiche tese a prevenire il declino demografico e a contrastare il calo della fecondità. La Commissione sottolineava la necessità di politiche finalizzate a ridurre le difficoltà incontrate dai giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro e politiche di parità tra i generi in grado di facilitare la possibilità di avere figli. In linea con quanto stabilito nella strategia di Lisbona, si auspicavano interventi per favorire un aumento del tasso di occupazione . Si sottolineava, inoltre, la necessità di aumentare il tasso di attività femminile e di elaborare delle linee guida per attuare la cosiddetta flexecurity favorendo quindi, accanto alla flessibilità dei mercati del lavoro, l’elaborazione di provvedimenti relativi alla protezione sociale (1).
L’invecchiamento e la crisi in Italia
La popolazione italiana, tra quelle europee, presenta, da diversi anni, il livello più elevato di invecchiamento, facendo registrare una percentuale di persone con  più di 65 anni del 19,6%; poco distante è la Germania con il 19,3%, mentre la media 27 paesi appartenenti oggi alla UE è pari al 16,8% (2).
Nonostante ciò, la politica italiana da allora non sembra aver voluto affrontare il problema della sostenibilità dell’invecchiamento della popolazione, né puntare alla ripresa della fecondità, così come “suggerito” dalla Commissione. E la crisi economica ha accentuato le difficoltà, contribuendo all’ulteriore caduta della disoccupazione giovanile e femminile, e anche allo stallo della fecondità. Dal 2008 ad oggi si sono stati persi più di 800.000 posti di lavoro e le assunzioni (prevalentemente di giovani) hanno subìto un calo del 20%, in particolare quelle a tempo indeterminato (3).
Dal 2007 a oggi, il reddito lordo a disposizione delle famiglie italiane ha perso il 4,7% del suo potere d’acquisto acuendo le situazioni di povertà, che colpiscono soprattutto le donne: nel 2010, ad esempio, il 57,5% delle famiglie più povere ha un capofamiglia donna (4).
Le istituzioni continuano ad essere assenti in questi difficili anni, e sono le famiglie stesse, quando possono, a dover sopperire a tale mancanza di aiuti e sostegno. Negli anni della crisi sono infatti aumentate le famiglie che hanno effettuato delle donazioni a parenti ed amici in difficoltà (5).
Le misure per assicurare una maggiore protezione ai periodi di disoccupazione e precarietà sono essenziali per i giovani, ma anche per molte donne, vittime, ancor più degli uomini, di un mondo del lavoro fortemente precario, e più fragili nel momento in cui decidono di diventare madri, anche a causa dell’insufficienza delle misure di conciliazione tra lavoro e famiglia.
Purtroppo, nel nostro paese, tali questioni non sono mai state al centro del dibattito politico e continuano a non esserlo oggi. Le spese per questo tipo di politiche sono sempre state viste più come un costo che come un investimento, e, stante la crisi di bilancio, sono state tagliate (6).
Gli effetti
Ma gli effetti si sentono. Ad esempio, il TFT nel 2011 è stato pari a 1,39, invece di 1,42, come stimato nelle previsioni Istat calcolate solo un anno fa. Rispetto alle previsioni, pur non particolarmente ottimistiche, si sono registrate oltre 10.400 nascite in meno che, fermi restando gli altri parametri demografici, dovrebbero aver provocato già nello stesso 2011 un aumento dell’indice di vecchiaia (100*P65+/P0-14), pari allo 0,18% (tab. 1). Inoltre andando a confrontare il saldo migratorio previsto per il 2012, pari a circa 325.000, con quello che risulta dai dati provvisori, circa 241.000, si nota come questa differenza abbia prodotto una mancata immissione di popolazione presumibilmente più concentrata nelle classi di età centrali e lavorative. Da questi semplici calcoli, solo relativi al 2011, possiamo affermare che, proprio a causa della crisi economica, la popolazione italiana al 1.1.2012 risulta più invecchiata rispetto alle ultime previsioni, con una percentuale di anziani pari a 20,64 contro il 20,61 e con un indice di vecchiaia pari a 147,0 invece di 146,8. Se questi valori sembrano adesso poco divergenti, è certo che, con il passare del tempo, si accentueranno poiché le circa 10.400 nascite in meno produrranno in prospettiva circa 5000 donne in meno in età feconda e, analogamente, le donne immigrate che non sono arrivate, non metteranno al mondo i figli che si erano previsti. Reiterando il ragionamento e prevedendo che il TFT, in fase di stallo dal 2009, difficilmente ritornerà ai livelli ipotizzati precedentemente, questa situazione complicata tenderà ad accentuarsi con gli anni.
Se anche, come si spera, la crisi economica dovesse passare in tempi “relativamente brevi”, le conseguenze che questa crisi avrà portato sul piano demografico non saranno così facilmente recuperabili neanche nel lungo periodo: l’inerzia dei comportamenti demografici lascerà una lunga traccia sulla struttura per età degli anni a venire.

Note
(1) Commission of the European Communities (2006) Commission communication “The demographic future of Europe – from challenge to opportunity”
(2) Dati Eurostat, 2013
(3) Confindustria, 2012
(4) Montella M., Mostacci F., Roberti P. (2012) “I costi della crisi pagati dai più deboli” in www.lavoce.info
(5) Scrutinio V. (2012) “Un welfare all’italiana: il sostegno delle famiglie durante la crisi”
(6) Mencarini L. (2011) “Famiglia e fecondità in Italia, tutto cambia perché nulla cambi?”

* Università Roma Tre, **Istat

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